A Prodi non va giù la stilettata dell’«Economist»

Egidio Sterpa

Dice Romano Prodi: «Bei tipi gli inglesi, criticano l’attuale governo, poi però immaginano che anche quello futuro sarà piuttosto cattivo». Insomma, bravo l’Economist quando parla male di Berlusconi (unfit, cioè inadatto a governare), ma non va bene quando non mostra fiducia neppure in Prodi (definito anche lui unfit).
Che strano Paese il nostro, e che strana classe dirigente. Basta un giornale che esprima giudizi e ci si copre il capo di cenere. L’Economist sarà pure un antico giornale economico-politico (fondato nel 1843) con buona tradizione, ma è pur sempre solo un giornale. Tanto più che questa survey (analisi in inglese) del settimanale è opera di un solo giornalista di nome John Peet, che sarà pure bravissimo ma non è il padreterno e neppure Einaudi. Sì, lo sappiamo già per nostro conto, per nostra obiettiva osservazione che non tutto va bene in Italia, come del resto in tutt’Europa. Né noi arriviamo all’ironia di Pierluigi Bersani, responsabile economico dei Ds che prova addirittura ad avanzare la tesi che quelli dell’Economist siano iettatori. Perché ovviamente, tout marche comme sur des roulettes quando è il Cavaliere ad essere sotto tiro, ma l’histoire est invraisembable quando tirano le pietre anche a te.
Ma vediamo un po’ che cosa dice esattamente il collega Peet nel suo eccezionale survey sull’Italia. Non è poi del tutto negativo. Per esempio, promuove la riforma delle pensioni e quella del mercato del lavoro (qui dà del «coraggioso» al governo), gli interventi sull’università e la ricerca, e la politica estera, per la quale parla, pensate, di «successo». Boccia tutto il resto, si capisce. Arriva a dire, con un po’ di supponenza storica, che l’Italia rischia di fare la fine di Venezia «rimasta troppo a lungo sui successi del passato e oggi e poco più che un’attrazione turistica». È qui che viene il giudizio su Prodi e la sinistra che, dice, «troverà difficile introdurre riforme» perché la sua coalizione abbraccia nove partiti, alcuni dei quali ostacoleranno ogni cambiamento».
E si capisce che questo dispiaccia a Prodi e al suo centrosinistra. Sì, anche Prodi è inesorabilmente unfit per gli inglesi. Insomma, noi tutti per Peet siamo inadatti, inadeguati, incapaci. Meriteremmo di diventare colonia di Sua maestà britannica. Ma sì, ce lo meriteremmo, se non altro perché basta un laureato di Oxford o di Cambridge per metterci in condizioni di inferiorità psicologica e culturale.
Torniamo però per un momento a Prodi, che così s’è espresso su «quei bei tipi degli inglesi»: «Li convinceremo con i fatti che non hanno ragione di mostrarsi così scettici sul prossimo governo post berlusconiano». Lasciamo pure stare la presunzione, ma credo sia lecito chiedersi come Prodi e la sinistra potranno convincere noi, se non gli inglesi, di possedere formidabili e miracolose capacità di governo. Siamo abituati, come liberali e costume politico, a non trinciare giudizi prevenuti (al contrario di Prodi che di prevenzione e immodestia pare impastato), e perciò proveremo a camminare sui passi di analisti che di certo non sono antiprodiani.
Ricorriamo a due penne del Corriere. Michele Salvati, venerdì scorso, scriveva: «Però, insisto con chi dirige l’Ulivo: per piacere dite agli elettori le 4 o 5 cose concrete che vi impegnate a fare se vincerete le elezioni». Dario Di Vico, altra firma di via Solferino, dove è autorevole vicedirettore, è più preciso: «Il centrosinistra continua a trastullarsi con l’idea di cancellare tutte le leggi del recente passato». E aggiunge, in vena di obiettività: «Tutto si può dire del centrodestra, ma occorre riconoscere l’abilità d’indicare priorità che sono rimaste nella memoria. E allora viene spontaneo chiedere al centrosinistra, ma anche alla vasta area d’intellettuali che in quel campo si riconosce di provare a fare altrettanto... Cento righe, non di più, per spiegare agli italiani dove li si intende portare».

Ecco, vorremmo saperlo anche noi, pur convinti, come Stefano Folli, sul Sole 24 Ore che Prodi e i suoi sono, ad essere benevoli, la nuova Bisanzio.

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