Prodi nuovo idolo del «Manifesto»

Luigi Amicone

La fondatrice del Manifesto ama i gatti e vive agiatamente tra il centro di Roma e la città dei Campi Elisi. La corrispondente del Manifesto dalla Francia vive altrettanto bene, in un bell’appartamento nel cuore della capitale francese. Abbiamo visto tutti cosa è accaduto a Parigi. Rossana Rossanda ci ha fatto la morale ferrigna e apocalittica. Anna Maria Merlo la cronaca asciutta e inquieta. Il tutto per premettere, dice un memorabile editoriale della Rossanda sul Manifesto di mercoledì 9 novembre (giorno ottimale, essendo in sciopero quasi tutti gli altri giornali, per dare vetrina a un messaggio chiaro e forte), che «Prodi ha ragione». Attenzione. «Prodi» - non l’Unione, la sinistra, l’opposizione - «ha ragione». Tant’è, graffia la Rossanda, mentre «Adriano Sofri scrive arguzie sulle automobili» e l’opposizione non difende abbastanza i tumulti di Val Susa, il professore di Bologna è l’unico che ha finalmente capito che «non è il modello di integrazione sociale francese che va a pezzi, vanno a pezzi tutti i modelli di crescita inseguiti da vent’anni a questa parte in Europa, e cari ai riformisti». Avete inteso il messaggio, no? Altro che Blair, Schröder, Fassino. Prodi è più avanti della sinistra (o più indietro, fate voi) nell’aver marxisticamente compreso che è in atto uno scontro di classe che potrebbe esplodere anche in Italia (chissà se è un timore o un auspicio quello espresso dai nostri due profeti di sventura). Scusate, non è per gusto di polemica, ma provino a ragionare (anche a sinistra) quelli che sono convinti che esista un Prodi moderato, riformista, all’altezza di una leadership di governo.
Il Manifesto è, per autodefinizione, «quotidiano comunista» il cui mestiere di vivere è legittimamente improntato dalla denuncia delle contraddizioni del mondo e dalla mancata elaborazione del lutto, immenso, prodotto dall’utopia comunista nello scorso secolo più che dalle ingiustizie millenarie. Questo suo mestiere tetragono davanti ai fatti il Manifesto lo svolge da oltre un trentennio. E lo svolge anche bene. A partire da quei suoi titoli calembour di prima pagina che fanno calare la corazza di una rappresentazione ideologica della realtà (chissà che fatica inventarsi un motivo e una prospettiva di risentimento ogni giorno!). Ma cosa c’entra Prodi con il turista umanitario o con l’accademico altezzoso che si erge ogni mattina dalle pagine del Manifesto, in posa da mendicante che si erge diritto, in mezzo alle macerie fumiganti delle imprese umane (sì, anche Evola abita in Via Tomacelli), per predicare altri mondi possibili? Cosa c’entra l’autodefinitosi «cattolico adulto» Romano Prodi con l’armamentario del più testardo e ferrigno comunismo italiano? Lo suggerisce bene, a mio avviso, il cattolico e politicamente trasversale Giorgio Vittadini nel numero di Tempi in edicola. «La dichiarazione di Romano Prodi rappresenta uno dei punti più preoccupanti della politica italiana negli ultimi anni». Per ragioni di metodo, dice Vittadini, «una tale dichiarazione, potrebbe diventare indirettamente la giustificazione per un futuro scenario». Per ragioni di merito, ribadisce il presidente della Fondazione Sussidiarietà, «La violenza è vista come la “conseguenza inevitabile” di un male peggiore, secondo una logica che riporta in auge proprio da parte di presunti pacifisti l’occhio per occhio, dente per dente» e poi «proprio da parte di chi dice di osteggiare il conflitto di civiltà. Non si pensa sia in gioco l’isolamento di pochi facinorosi, ad onta di una maggioranza di cittadini che vogliono tranquillamente integrarsi e costruire insieme». «Magia di un uomo evergreen, dall’Alfa Romeo a Bertinotti» conclude Vittadini. D’accordo. Dall’Iri a Liberazione.

Ma vuoi mettere il miracolo di incarnare nello stesso uomo il movimentismo bertinottiano e il cominternismo del Manifesto? Questo sì che è un merito del leader dell’Unione. L’essere sin qui riuscito a riunire la sezione italiana dell’Internazionale comunista, da Fausto Trozky a Rossanda Lenin. Chissà chi sarà, in questo teatrino della politica, l’ex seminarista Giuseppe Stalin.

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