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Prodi prende la fiducia alla Camera Oggi vuole tentare anche il Senato

La caccia ai voti fallisce, oggi il premier decide la strategia. Lega e Udeur denunciano: concussione. Il Professore litiga con il Pd. E resiste alle pressioni di Napolitano che suggerisce: "Lascia ora". Prodi punta a fare il bis con la scusa delle riforme. Commenta. Leggi i commenti. Elezioni subito: VOTA

Prodi prende la fiducia alla Camera 
Oggi vuole tentare anche il Senato

Roma - Vado o non vado? Mi si nota di più se vado e mi metto in un angolo, o se non vado e mi mettono nell’angolo? Salgo al Quirinale o non salgo? Sono le ultime ore di Palazzo Chigi prima dell’eruzione dei «no», ed è una notte di pensieri tormentosi, quella di Romano Prodi nel bunker. La mente va ai mille passi perduti, ai cinque voti che mancano, alle scale che nella vita si salgono ma poi inesorabilmente si scendono. Alla giornata inutile di incontri per dirsi addio, discese ardite e risalite, amici che non contano, nemici che cantano.

Romano sfoglia la Margherita (quella sciolta nel Pd), sente l’insostenibile peso della Quercia (idem come sopra), ripassa a memoria, ancora una volta, i nomi degli infedeli senatori. Sono le ultime ore, e Parisi gli porta ancora una volta l’inutile brogliaccio zeppo di numeri corretti che non tornano. Micheli gli parla sottovoce, come davanti al capezzale, Sircana lo inonda del solito pestilenziale fumo di cento sigarette. Che tedio, che orrore, che inutile spreco. Voglio o non voglio, mi arrendo o vado a sbattere, mi butto o non mi butto?

L’ultimo giorno di Romano comincia con un vento di tramontana freddo e tagliente. Uhm, non un buon segno. Alla Camera per le celebrazioni del Sessantesimo della Costituzione il premier-tentenna, trova il sorriso amico di Gianni Letta, zio del fido Enrico. Frasi cordiali tra nemici leali. Una stretta di mano con Silvio, l’eterno rivale, ci sta pure. Monito per continuare a combattere, fino all’ultimo sangue, per non dargliela vinta. Entra tra i buuu del centrodestra, ma ecco il presidente Napolitano ribadire le priorità del Paese. «Le riforme, come se non lo sapessi... Ma le devo fare io, e se non vogliono li porto al referendum, così imparano. E voglio che il Paese sappia chi mi sta tradendo: il voto contro in Senato, voglio vederli... Uno per uno». Prodi torna battagliero.

Incontra il vecchio amico dc Bruno Tabacci, che lo scongiura di evitare il voto in Senato. «Bruno, da te mi aspettavo qualcosa in più dell’amicizia... Hai ancora qualche ora per riflettere», ritrova per un attimo il sorriso. Presto, difilato a Palazzo Chigi, dove arrivano i «Bruto». Il primo è Fisichella, a lungo trascurato dunque avvelenato. Mo’ me lo cucino io... No, non si smolla. Il senatore esce e ribadisce che, nonostante le pressioni, «il rapporto di fiducia politica si è esaurito». Anche un po’ Romano, che si ricarica a molla per l’arrivo di Dini. È un colloquio un po’ più lungo e tempestoso. «Ti prometto rispetto, ti prometto Economia, ti prometto...». Dini taglia corto e riferisce alle telecamere gelido come il vento che soffia: «Ho consigliato a Prodi di salire al Quirinale dopo il voto alla Camera, in Senato non ha la maggioranza». Prodi telefona subito al vecchio amico Natale D’Amico. «Quoque tu ex D’Amico?». «No, io no. Io ti voto», si commuove Natale.

Parisi aggiorna il foglietto delle presenze: meno tre, più uno. Prodi lo cestina, continua con le telefonate. Gli portano le agenzie: Andreotti, un sì che porta buono; Cossiga, un sì che porta Romano a toccare ferro. Telefona il Quirinale, Napolitano vuol sapere, il premier corre a riferire. Una mezz’ora sui carboni ardenti: «Mi pare che non ci siano i numeri, evita il passaggio al Senato, evita il muro contro muro - suggerisce Napolitano -. Ne ho parlato anche con Veltroni...». Una formula magica per far stizzire Prodi: «No, aspetto. Qualcosa cambierà, Parisi sta rifacendo i conteggi, mi riservo di decidere... Prima vediamo che succede...».

Continua il pressing sui senatori, ma anche il contropressing su Prodi. Bordon e Manzione, Russo Spena e D’Alema (tramite Velina): «Non ci sono i numeri, Prodi si dimetta dopo il voto della Camera». Il premier tentenna e barcolla. Cossiga insiste: «Avrà la fiducia anche in Senato». Tocca ferro.

Di corsa alla Camera, D’Onofrio trova la via mediana: «Venga in Senato, ascolti le dichiarazioni di voto, prenda atto che non c’è maggioranza e vada al Quirinale a rassegnare le dimissioni». Romano riflette. Convoca i ministri alla Camera, per agenzia apprende che «il Pd sta valutando l’ipotesi di dimissioni prima del voto in Senato». Perde le staffe: «È troppo! Voglio la smentita, subito». Parisi lo conforta: «Non posso crederci, non posso crederci». Nasce un caso, si corre a chiedere uno straccio di smentita che rabbonisca Re-bomba. «Noi sosteniamo convintamente le scelte di Prodi, il resto sono bufale», dichiara il rassegnato Franceschini.

Romano ferito, umiliato, testardo. Raduna i suoi e va a parlare con Marini. «Se vado al Quirinale dopo il voto della Camera la do vinta a Veltroni, ma posso ottenere il reincarico. Se vado a sbattere con i numeri di Parisi, esco a testa alta. Ma esco». Vado o non vado? E se avesse ragione D’Onofrio? Ma non era cossighiano? Vado domattina, no: decido domattina.

Meglio dormire, sognare forse.

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