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Prodi rientra in campo e falcia subito Bersani

Prodi è convinto che se nell’attuale situazione oggettivamente molto favorevole, il Pd di Bersani non cresce, questo vuol dire che il difetto sta nel manico e il manico sta nella stanza di Bersani. La volontà dell'ex premier è di affossare i progetti di Pier Luigi. Il sogno impossibile di un governo Monti

Prodi rientra in campo e falcia subito Bersani

A lla fine dell’intervista, avvolta nella carta stagnola colorata e con due fiocchetti di velluto, la coltellata nella schiena e ti saluto Bersani. Firmato, Romano Prodi. «The crime scene», la scena del delitto circoscritta con un nastro adesivo giallo, la pagina 12 di Repubblica, sotto un titolo anodino e fuorviante in cui si annuncia, sai che scoperta, che il suo candidato preferito per un governo «del Presidente» (come lo chiama ormai ufficialmente Eugenio Scalfari) è Mario Monti.

La coltellata sta nelle ultime righe, rispondendo alla domanda «che prospettive vede per il centro-sinistra?». E Prodi: «Bersani è una persona eccellente, di grandi capacità, posso dirlo, è stato un mio ministro, ma non riesce a “uscire”... Non è confortante leggere che, con quel che succede, nei sondaggi il Pd non riesce a crescere come ci si aspetterebbe». Un giudizio feroce espresso alla vigilia della svolta parlamentare che nelle intenzioni dei protagonisti dovrebbe portare il Pd al governo con Casini e, dati i rapporti di forza, Bersani in posizione di aspirante premier, secondo la logica dei numeri. Un giudizio, aggiungo io, che combacia perfettamente con quello di Carlo De Benedetti in una sua lunga intervista che pubblicai nel mio Guzzanti vs De Benedetti, in cui la tessera numero uno del Pd, il padre nobile e l’editore assoluto della corazzata Repubblica-Espresso, parlando di Bersani mi disse qualcosa di molto brutale e poi edulcorò la versione stampabile dicendo che il segretario del Pd è un’ottima persona, è stato anche un eccellente ministro dell’industria, ma quanto a leadership politica, siamo seri, è una nullità assoluta. C’è da dire, per completezza di informazione, che De Benedetti espresse giudizi non meno feroci sullo stesso Prodi, arrivando a dire che nella vicenda della vendita della Sme l’allora presidente dell’Iri aveva fatto una gaffe planetaria tacendo i suoi piani a Craxi allora presidente del Consiglio e che dunque Craxi non aveva avuto torto ad infuriarsi.

Come si vede, scava scava, il problema genetico della sinistra odierna è che non ha più architravi portanti, non ha un vero leader, non sa nemmeno costruire una leadership (si veda come Matteo Renzi viene preso a insulti e male parole dallo zoccolo duro del partito), non produce politica come progetto, né come sogno, come ideale. Ai tempi del comunismo reale, il mito del sogno c’era, per quanto grondasse lacrime e sangue, ma crollati i muri sono crollati anche i soffitti, le porte e le finestre, lasciando l’onusta casa madre sotto un mucchio di macerie.
Ma quel che impressiona sono i tempi. A Prodi non l’ha certo ordinato il dottore di esprimere a freddo e fuori contesto un giudizio politico sul segretario del suo partito che equivale ad una esclusione, oggi e per sempre, dalle maggiori e legittime ambizioni per un segretario politico, prima fra le quali quella di poter correre come presidente del Consiglio. Romano Prodi negli ultimi tempi, da quando lasciò il governo e la politica attiva nel 2008, ha assunto un profilo sempre più alto e defilato dalla politica politicante. Molto pensano, e legittimamente, che il professore stia studiando da presidente della Repubblica, visto che il posto al Quirinale è in scadenza e lui ha ottimi titoli da vantare: in fondo è stato l’uomo che ha battuto per ben due volte Silvio Berlusconi, che ha guidato la Commissione europea, che è stato più volte ministro e presidente dell’Iri, oltre a svolgere varie attività accademiche e professionali di livello anche internazionale.
Un giudizio politico di Romano Prodi oggi sul segretario generale del primo partito dell’opposizione, è una carta bollata. Bollata come una bocciatura: Prodi è convinto che se nell’attuale situazione oggettivamente molto favorevole, il Pd di Bersani non cresce e non crepa, questo vuol dire che il difetto sta nel manico e il manico sta nella stanza di Bersani.

Quale significato potrebbe avere questa coda velenosa di un’intervista di ordinaria amministrazione? L’ipotesi più banale è che possa non averne alcuno: a Prodi potrebbe essere uscita una battuta estemporanea e nulla di più. Da giornalista e da politico direi che questa ipotesi è molto improbabile perché il Professore pesa le parole e le medita per due notti consecutive prima di aprire bocca. La seconda ipotesi è che di fatto voglia depotenziare il progetto politico di Bersani, che consiste in un accordo con Casini per una spallata finale al governo Berlusconi, aprendo così le porte degli inferi, visto che nessuno sa, oggi, se questo preteso governo Monti, o del Presidente, o di unità nazionale o comunque lo si voglia chiamare, esiste, sta sulla carta non soltanto con i numeri, ma con la mappa della coalizione e del programma.
In tempi molto recenti Prodi disse già qualcosa di sbalorditivo, se visto da sinistra. E cioè disse che non era il caso di buttare giù il governo Berlusconi perché non si deve cambiare il manovratore nel bel mezzo di una manovra. Oggi dice di aver cambiato idea perché Berlusconi a suo parere non può più restare in carica, ma si ha l’impressione che non ci creda davvero a questa correzione e che l’abbia introdotta per puri motivi diplomatici e di apparenza, se non di buona creanza. E questa è la terza ipotesi: che Prodi, fingendo di appoggiare il disegno di eliminare Berlusconi per via parlamentare, abbia subito preso l’astuta precauzione di delegittimare il capo dell’opposizione dandogli dell’incapace: un bravo ragazzo, per carità, ma uno che non sa fare goal neanche a porta vuota. La terza ipotesi viaggia con il supporto di un altro elemento della giornata che non ha a che fare con Prodi ma con Di Pietro, che ha liquidato con un veto l’idea nata nel Pd di presentare una formale mozione di sfiducia contro il governo. Di Pietro, dopo aver preso la legnata dell’ultima trappola ordita nel gruppo del Pd dal vice presidente Giorgetti, ha detto che lui non firma alcuna mozione di sfiducia se prima non vede nero su bianco i numeri. E i numeri dicono oggi che la mozione di sfiducia non passerebbe e che il fronte che lavora per la caduta del governo potrebbe logorarsi ancora inutilmente, anche perché non è affatto certo che Napolitano avallerebbe un cambio di maggioranza senza passare per il voto.


Una cosa è dunque certa: Pier Luigi Bersani, per scelta dello stesso uomo di cui fu ministro due volte, e con il quale ha condiviso i momenti lieti e quelli rovinosi, fino alla caduta proprio su un voto di fiducia, è stato bocciato dal suo antico primo ministro, dal possibile futuro capo dello Stato, dall’attuale punto di riferimento di una larga parte della sinistra.

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