Il prodigio di essere bambini

Alessandro Massobrio

Wolfi e Nannerl sono quelli che nel diciottesimo secolo venivano chiamati enfants prodiges, vale a dire bambini prodigio, creature mostruose ed un po' ripugnanti come possono esserlo le donne barbute o i nani che, alla fine della loro vita, raggiungono a stento il piano del tavolo. Nel caso dei due Mozart, invece, l'eccezione alla regola era rappresentata da questa infanzia negata o comunque violata. Un'infanzia a cui venivamo negati i giochi e i divertimenti dei bambini per essere votata al divertimento degli adulti: la musica.
È su questo motivo tematico che Italo Moscati gioca la sua ricostruzione storica dell'infanzia di colui che è stato considerato forse il più geniale musicista dell'era moderna. L'artista capace di calare il sipario sulle ultime note del rococò, che in storia della musica si suole indicare come età classica, ed aprirlo sui primi accordi del romanticismo.
Una ricostruzione seria e ben documentata, a volte magari segnata da una preconcetta avversione anticattolica - come quando si rimprovera a Leopold ed alla suo devota sposa di aver dato alla luce, prima di Wolfi e Nannerl, la bellezza di cinque piccoli Mozart, morti prematuramente nei primi mesi di vita. Certo, cieca sottomissione ai precetti di una Chiesa e di una società che vedeva nella famiglia semplicemente una fabbrica di figli, di soldati e di operai della vigna del Signore. Sottomissione comunque non meno cieca ai dettami della modernità di quanti i figli considerano un impaccio, da eliminare al più presto con un aborto prematuro.
Ultimi di cinque fratellini, volati assai presto tra le nuvole bianco-oro di un paradiso rococò, i piccoli Wolfi e Nannerl prendono poco per volta coscienza del loro posto nel mondo. Un posto non molto distante da quello del servitorame, visto che il compito degli artisti in questo ultimo atto dell'ancien règime consiste, in fondo, nel procurare divertimento e distrazione ai rispettivi padroni.
Che poi questi ultimi siano il vescovo-conte di Salisburgo o l'imperatrice Maria Teresa d'Austria poco importa. Il fatto è che le classi più infime, in questo scorcio di diciottesimo secolo, visitato già all'estremo orizzonte dai cupi rombi del temporale della rivoluzione, avvertono nell'aria stessa che respirano l'ansia di novità, il senso di un cambiamento epocale e sempre più vicino, che travolgerà la loro esistenza, imprimendole una rotta, nel bene come nel male, del tutto imprevista.
Questa percezione è, per esempio, vivissima in Leopold, padre di entrambi e maestro di cappella a Salisburgo. Ruolo che Leopold ha ottenuto grazie alla pubblicazione di un breve ma approfondito manuale per l'apprendimento e l'uso del violino. Una piccola perla di ispirazione illuministica, che è costata al maestro, religioso come può esserlo un ex allievo dei gesuiti, un deciso cambiamento di Weltanschauung.
E già, perché votarsi alla filosofia dei lumi in una città piccola e bigotta come Salisburgo, dove i comportamenti sono schedati e catalogati e la piccola borghesia lotta disperatamente per adeguarsi al comportamento degli aristocratici, non è per niente facile, anzi, in un certo senso, rischioso. C'è il rischio cioè di entrare a far parte delle cosiddette «teste calde», di quei novatori a tutti i costi, che, alla viglilia della rivoluzione francese, girano, come Cagliostro, i quattro canti d'Europa.
D'altronde, Leopold si rende ben conto che per se stesso e per la sua famiglia quello è il momento di emergere. Quello o nessun altro. L'ansia, l'aspettativa del cambimanto è infatti così forte da essere quasi palpabile nell'aria. E d'altronde l'illuminato governo di Maria Teresa, che è succeduta al padre Carlo VI, rovesciandone la politica immobilistica in un altra tutta protesa all'integrazione della borghesia nell'ambito della classe dirigente, sembra favorire simili aspettative. È vero che gli albori del regno della giovane e saggia sovrano sono funestati dalla lunga guerra contro la Prussia di Federico il Grande. Una guerra di difesa e di contenimento che i posteri chiameranno dei Sette Anni. Ma anche così, la situazione non si sembra tanto drammatica da sconsigliare a Leopold ed alla sua famiglia di tentare il balzo nel grande mondo.
Oltretutto il tour della famiglia Mozart è sponsorizzato dal ricco padrone di casa, un certo Haguenauer, che ha fiutato nei due bambini prodigio una sicura fonte di ricchezza e notorietà. Certo, non subito le cose prendono il verso giusto. Accanto a successi indiscussi, come l'esibizione dinanzi al sovrano di Baviera Massimiliano III, che fruttano applausi e quattrini, vi sono le opache vicende con il vescovo conte di Lindau, che non solo fa fare anticamera per cinque giorni ai musicisti, ma poi - bontà sua - si degna di ricevere il solo Wolfi, regalandogli la miseria di una singola monetina d'oro.
Leopold, d'altra parte, non fa una piega. Sa quanto sia incostante e metereopatica la condiscendenza degli aristocratici e dunque si ritiene autorizzato a stringere i denti e non mollare, nella certezza che prima o poi i tempi cambieranno. Tutti questi episodi finiscono poi per arricchire una sterminata aneddotica sugli esordi del genio, nonché fornire alle lettere che il musicista scrive alla madre tutta una serie di episodi comici, descritti con assoluta sapienza letteraria. Perché Mozart si rivela non soltanto un grandissimo compositore di note ma un imprevedibile compositore di frasi. Sempre in bilico sul versante dell'assurdo e sempre recuperate, all'ultimo secondo, con abilità di autentico prestigiatore lessicale.
E poi c'è ovunque quell'umbratilità tipica dei grandi romantici, che sapevano passare, nell'ambito dello stesso capoverso, dalla più cupa tristezza allo sberleffo risolutore. Di questo stile Italo Moscati ci fornisce, in esergo ad ogni capitolo, un breve quanto gustoso assaggio, che a completare ed arricchire quanto già del compositore sappiamo o andiamo scoprendo.
Da questo lungo tour il giovane Wolfli ritorna non sappiamo se più abile a far correre le piccole dita sulla tastiera del pianoforte o clavicembalo di turno, di certo assai più consapevole dei suoi diritti. Di quei diritti di artista e dunque creatore di opere non destinate ad esaurirsi nel tempo, che la società del suo tempo si ostinava a non riconoscere. Ma ci penserà Mozart stesso, pochi anni dopo, sbattendo la porto in faccia ai gurdiaportone del vescovo di Salisburgo a ribadire questa innegabile verità. Dando inizio così al culto dell'artista - genio e sregolatezza - che sarà proprio dell'Ottocento e del romanticismo e di cui ancora oggi avvertiamo lo strascico.


Certo è comunque che Italo Moscati sa renderci gli anni di apprendistato del piccolo genio (e della sua non meno geniale sorella, sarebbe una volta tanto il caso di ricordarlo) con una finezza di notazioni storico sociali, con una così totale immersione nella Kultur del tempo da trasmetterci la sensazione non soltanto di vivere, ma di percepire gli stessi profumi, fetori, colori, immagini e pensieri e aspirazioni di un suddito austriaco di sua maestà Maria Teresa. Madre e regina imperatrice dei suoi popol
]Italo Moscati, I piccoli Mozart, Lindau, Torino 2006, pag. 252, euro 19,00.

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