Laura Cesaretti
da Roma
In fondo (primarie a parte) è la prima volta che Romano Prodi può vestire i panni del vincitore, e dunque si può capire che tenga a sottolinearlo. La festa delle elezioni politiche, l11 aprile, gli venne rovinata dallimprevista rimonta di Berlusconi e dallatroce dubbio, fino a notte alta, di avere in realtà perso. Poi gli è toccato stare a bagnomaria più di un mese, in attesa di poter fare il governo. Poi, appena varato il gabinetto dei 102 gli sono piovute addosso critiche e attacchi dogni genere.
Insomma, il successo del No nel referendum è la prima vera soddisfazione che si può prendere, e giustamente ne approfitta. E dunque la celebra: «È stato un bel colpo», gigioneggia. «Uno dei tanti», alza il tiro. «Abbiamo vinto tutto - si lascia andare - ogni prova possibile e immaginabile: politiche, amministrative, comunali e referendum... abbiamo fatto il salto triplo carpiato». Poi aggiunge, per non esagerare, che tutto ciò lui lha fatto «con fatica, e con modestia, perché non cè mai nulla di facile». E però sia chiaro a tutti, fuori e - soprattutto - dentro lUnione: «Ora abbiamo vinto, e teniamone conto perché significa che abbiamo il diritto e dovere di governare per cinque anni».
Il premier approfitta della tribuna del Congresso della Uil, a Roma, per ribadire il messaggio già mandato subito dopo il risultato referendario: «Ora si tratta di ricomporre il Paese, finendola con gli strani progetti di devoluzione e lavorando con lopposizione per le riforme costituzionali». Il messaggio è a doppio taglio: da una parte Prodi vuole affermare la sua leadership dentro il centrosinistra anche sullo scivoloso tema delle riforme e degli eventuali «dialoghi» trasversali. Dallaltra, come ha spiegato ai suoi, è convinto che la sua apertura serva a seminare zizzania nel fronte avverso, accelerando le rese dei conti interne al centrodestra: «Ora stiamo a vedere cosa succede in casa loro».
Nel dossettiano Prodi i disegni di «grande riforma» costituzionale suscitano uninvincibile diffidenza ideologica. «Questo risultato del referendum ha finalmente ucciso il mito della Grande riforma», confida il suo fedelissimo Franco Monaco, e il Professore la pensa allo stesso modo. Però sa che mettere le mani nel pasticcio federalista combinato dalla scorsa maggioranza di centrosinistra è indispensabile, e ieri Piero Fassino ha rilanciato il tema: «La devolution è stata bocciata, ma bisogna completare la riforma del Titolo V, attuare il federalismo fiscale, introdurre il Senato federale perché quello proposto dalla Cdl non lo era. Questo è un terreno di confronto, dare compiutezza al federalismo, con il centrodestra». Per quanto lo riguarda, Prodi vorrebbe soprattutto modificare la legge elettorale: insomma, di riforme toccherà parlare. La questione è capire quando (Prodi in realtà è per i tempi lunghi, in sintonia con Rifondazione che chiede una «pausa di riflessione») e dove, perché la sola parola «Bicamerale» gli fa venire il sangue agli occhi, al ricordo del trappolone dalemiano di due legislature fa.
Ma dentro lUnione ci sono linee assai diverse, e diversi protagonismi in cerca di emersione. Ad esempio il ds Luciano Violante, da presidente della commissione Affari costituzionali, è pronto a conquistarsi un posto di prima fila nelloperazione riforme. Tantè che ieri ha annunciato di aver convocato già per il 4 luglio prossimo la presidenza della sua commissione, «allargata ai capigruppo di maggioranza e opposizione», per fare «una ricognizione sulle priorità in tema di riforme dopo lesito del referendum». E trova una sponda in Pierluigi Castagnetti della Margherita, che avverte: «Liniziativa riformatrice sia affidata al Parlamento e non al governo. In questo senso, i presidenti delle commissioni Affari costituzionali di Senato e Camera, Mancino e Violante, anche per il loro profilo istituzionale di ex presidenti delle Camere, possono essere i motori di questa iniziativa parlamentare».
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