Laura Cesaretti
da Roma
Raccontano che, a vittoria del «no» stabilizzata, Romano Prodi abbia tirato un sospiro di sollievo paragonabile a quello tirato dagli italiani per il rigore concesso in articulo mortis alla Nazionale.
Per il premier e per il suo governo lesito del referendum costituzionale è una salutare boccata dossigeno, una legittimazione della sua maggioranza e della sua leadership.
Ora che il fantasma di una «spallata» della Cdl si è dileguato, il Professore si sente più saldo in sella. E reagisce con prontezza di riflessi: a scrutinio ultimato scende nella sala stampa di Palazzo Chigi e si affretta a mettere il proprio cappello sul «dialogo sulle riforme» da far ripartire: «Ho chiesto al ministro per i Rapporti con il Parlamento - annuncia - di avviare immediatamente i contatti con le forze politiche per impostare il dialogo sulla riforma della Costituzione e della legge elettorale. Credo che tutti, maggioranza e opposizione, dobbiamo rispondere agli italiani dimostrando loro di possedere la stessa maturità e serietà che, con questo referendum, essi ci hanno appena dimostrato». Perchè le riforme, spiega il Professore, «si devono fare con l'accordo più ampio possibile e non a colpi di maggioranza».
Con questa mossa, Prodi cerca di mettere il governo, o meglio Palazzo Chigi, al centro della partita, per evitare che le redini di potenziali «dialoghi» con lopposizione (o meglio di «inciuci», come i prodiani li ribattezzano automaticamente) passino nelle mani dei partiti, di alcuni partiti in particolare (gli attivissimi Ds in testa) e siano loro a fissarne lordine del giorno. Cè ad esempio Massimo DAlema che chiede di aprire un «confronto serio sul futuro politico e istituzionale del Paese». Cè il lavorio di Luciano Violante (mancato ministro delle Riforme) che vuol lanciare una «Convenzione costituzionale» con forze politiche e «società civile». Anche per questo il Professore si affretta a precisare che si dovrà discutere certo di Costituzione da rivedere, ma anche (e soprattutto) di «legge elettorale». Per il premier, è quella la priorità: cambiare lattuale scombiccherato sistema iper-proporzionale, per tornare ad un modello più di coalizione, che elimini il potere di veto di partiti e partitini e ridia centralità al premier. E levare di mezzo quello che considera un potenziale rischio per la sua leadership, a medio termine. «Se il suo governo va in crisi, poniamo sulla Finanziaria o magari lanno prossimo - ragiona un dirigente di area radical dellUnione - Prodi sa che la minaccia di elezioni anticipate è unarma spuntata: con questa legge elettorale, il rischio di ritrovarci con una maggioranza traballante o addirittura una doppia maggioranza sarebbe troppo alto. E se nel frattempo, come ad esempio vuole lala dalemiana dei Ds, si fosse incardinato in Parlamento un qualche processo riformatore, quello diventerebbe lalibi per tenere in piedi la legislatura, con un altro governo, magari di larghe intese, chiamato a modificare la Costituzione e sanare leconomia...».
È questo lo spauracchio che Prodi vuole tentare di esorcizzare, facendosi promotore lui di un dialogo con la Cdl cui verrà offerto limmediato incardinamento della modifica dellarticolo 138 («Mai più riforme a maggioranza»), unampia correzione del Titolo V varato dal centrosinistra, che sta provocando una ingovernabile conflittualità tra Stato e regioni, e la legge elettorale.
Ma è una mossa azzardata: nellUnione, praticamente nessuno vuol toccare quella «porcata» proporzionale. Di certo non Rifondazione (che non vuol neppure sentire parlare di «dialogo» con la Cdl, argomento impopolare presso la sua base quanto la guerra in Irak o letà pensionabile) e gli altri piccoli partiti, e in fondo neppure i grandi, i cui gruppi dirigenti hanno assaporato il piacere di scegliersi gli eletti senza passare per alcuna selezione popolare.
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