Il Professore vuole darla a bere agli italiani

Sono molto soddisfatto del lavoro, ci aspettano ancora molti semestri

Laura Cesaretti

da Roma

«Mi attendevo tensioni e problemi» su una Finanziaria che «deve cambiare il Paese», mette le mani avanti Prodi. Ma la colpa è tutta della «micidiale» eredità ricevuta dal centrodestra.
Venerdì 17, palazzo Chigi: si tira il bilancio dei primi sei mesi di governo. La conferenza stampa era in preparazione da tempo, ma non appena Romano Prodi prende la parola si capisce che l’occasione è stata colta al volo per tentare di parare i brutti colpi che l’iter della Finanziaria non cessa di assestare all’immagine del premier e del suo governo.
La giornata lo richiede, d’altronde: il parto del maxi-emendamento è travagliatissimo, il ministro dei rapporti con il Parlamento Chiti vaga da ore per i corridoi di Montecitorio in attesa di poter formalmente annunciare la fiducia, i gruppi del centrosinistra e i ministri che han visto falciare le proprie istanze sono in subbuglio e le loro proteste arrivano a Palazzo Chigi una dietro l’altra. I giornali del giorno dopo rischiano di essere un’ennesima lettura spiacevole. E così si cerca di prevenire, e la conferenza stampa si trasforma nella lunga arringa difensiva di una manovra che ha raccolto poco successo di pubblico e di critica, anche tra i leader alleati: un «suk» per D’Alema, un «caos» per Angius, «mai visto niente di simile in quarant’anni» per il senatore a vita Colombo. E l’ex presidente Scalfaro ci mette del suo: «Questo governo avrebbe diritto al Nobel della comunicazione», infierisce.
Affiancato da Enrico Letta (che però resta in silenzio) e da Giulio Santagata, titolare dell’infelice ministero per l’Attuazione del Programma (prima di lui ci passarono Scajola e Pisanu, e pure loro non sapevano bene che fare di sé su quella poltrona), Prodi sciorina un supporto comunicativo di sapore american-berlusconiano. Slide, schede colorate, leggi «in pillole», tabelle e numeri e torte e diagrammi. E infine il fantastico «Albero del programma» che in un numero di caselle pari ai commi della Finanziaria, collegate da freccette che si intersecano con un effetto «gioco dell’oca», dovrebbe offrire la visione sinottica di ciò che il governo vuol fare per il Paese. Si va dai «cluster innovativi» al «rafforzamento del controllo giudiziario», dalle «class action» alle «best practices», fino alla «proprietà pubblica della rete per i servizi a rete» prontamente ribattezzata «casella Rovati» dal parlamentare Prc Falomi.
L’apologia prodiana inizia all’attacco: arrivato a Palazzo Chigi ha trovato un disastro: «finanza pubblica uscita dai binari», «cocktail micidiale di spese», «valori della concorrenza dimenticati», «nessuna vera liberalizzazione». Per non dire della «gestione irresponsabile dell’introduzione dell’euro», e della catastrofica immagine di un Paese «ondivago» all’estero. Si è rimboccato le maniche e ha «cominciato ad invertire la rotta», e «i fatti lo dimostrano». Quali? «Abbiamo rimesso la spesa sotto controllo, iniziato la lotta ai particolarismi, siamo tornati da attori sulla scena internazionale». E quel «caos» che Colombo non aveva «mai visto in quarant’anni»? Prodi ridimensiona: «Mi sembra di rivivere un film di dieci anni fa», quando anche la finanziaria sua e di Ciampi ebbe «altrettante reazioni». Ma «la storia ci dice che dopo tre mesi di tensione la nostra politica economica ha avuto ragione». La storia dice anche che dopo quella finanziaria il suo governo cadde, ma non è detto che tutto si ripeta uguale. Il premier si rivolge soprattutto alla sua maggioranza, che ora gli mette i bastoni tra le ruote e lo rimprovera «prima di aver tagliato troppo poco e poi troppo»: «L’abbiamo elaborata in modo collettivo - ricorda - non l’ho fatta piovere dal cielo l’ultima notte», e anche «la grande stampa internazionale ha cominciato a capire» che c’è del buono nella manovra, a differenza degli italiani.

«Sono molto soddisfatto del cammino compiuto», che comunque «è solo una premessa: abbiamo ancora molti semestri davanti». Nessuna domanda: terminata l’arringa Prodi se ne va, abbandonando Santagata alle prese con l’albero del Programma.

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