Le profezie mancate del "divino" D’Alema

Il notabile del Pd è tornato a invocare un "governo tecnico per riformare la legge elettorale". E' l’ultima mossa di una carriera politica fatta di strategie volte a spodestare il Cav. Sempre naufragate...

Le profezie mancate 
del "divino" D’Alema

La più grande interpretazione di Sabina Guzzanti resta, ad anni di distanza, quella di Massimo D’Alema: un Charlot tenero e nevrotico che disegna arditissime strategie inesorabilmente destinate al fallimento su un tabellone colorato alle sue spalle, il cosiddetto «Dalemone». Da allora, grazie al genio comico della Guzzanti, il Dalemone è entrato nel lessico politico corrente (l’altro prestito linguistico significativo e non troppo esaltante è «inciucio», che però in napoletano significa parlar male fitto fitto e a voce bassa di qualcuno che non c’è). E sta ad indicare, il Dalemone, un piano estremamente complesso e raffinato che per un motivo o per l’altro - secondo la famosa legge di Murphy - finirà implacabilmente col fallire. Del resto anche il Titanic, che non sopravvisse al suo viaggio inaugurale, aveva scelto come slogan «l’inaffondabile».
Bisogna sapere che il Dalemone si fonda su una presunzione di razionalità che troppo spesso la realtà dei fatti, che è sempre tumultuosa e contraddittoria, s’incarica prima o poi di smentire: proprio come in una partita a Risiko!, peraltro grande passione del giovane D’Alema, le migliori strategie e le riflessioni più razionali possono scontrarsi (e quasi sempre lo fanno) con i dadi sbagliati, capaci di sbaragliare in poco tempo il più armato e addestrato degli eserciti.
Tutta la politica si basa su previsioni e simulazioni, né potrebbe essere altrimenti. Il Dalemone però ha un elemento in più che lo rende unico e inconfondibile: qualsiasi piano, per quanto contorto o contraddittorio o bizzarro possa apparire, rientra comunque in un disegno razionale coerente che ha al suo centro la salvezza del Paese. Altri fanno accordi per tirare a campare, D’Alema (anche quando tira a campare) trasforma la più piccola mossa tattica in una lungimirante strategia al servizio della democrazia e delle istituzioni. In questo, è un genio.
Il vero Dalemone, infine, è multiplo. Non è un piano soltanto, è un insieme di piani, strategie e varianti che compongono una fitta rete di rimandi e di subordinate, di nuovo nel tentativo, da vero ottimista della ragione, di mettere ordine al mondo e trarre in ogni caso un vantaggio. Il confine con l’opportunismo è labile, e infatti più volte D’Alema è stato accusato di essere un opportunista. Ma sarebbe un’accusa, prima che ingenerosa, sbagliata: la politica è il campo delle opportunità, e semmai D’Alema ha il pregio di vestire di abiti eleganti una pratica non sempre commendevole.
L’ultimo Dalemone - il cui obiettivo, tutt’altro che nuovo, è rimuovere Berlusconi da palazzo Chigi - sembra ripercorrere le orme del primo, quello costruito con Bossi e Buttiglione durante una leggendaria cena a pan carrè e aringhe e destinato, nell’autunno del ’94, a far cadere il primo governo del Cavaliere e a dar vita al «governo tecnico» ribaltonista di Lamberto Dini.
Oggi al posto di Buttiglione e del Ppi c’è Casini con il suo Terzo polo, ma lo schema non cambia: il «governo tecnico» che dovrebbe sostituire Berlusconi all’indomani dell’eventuale sconfitta del centrodestra a Milano e a Napoli, nelle intenzioni di D’Alema avrebbe anche il sostegno della Lega, oltreché dell’Udc, in cambio di una legge elettorale proporzionale con sbarramento.
«Vedremo se ci saranno le condizioni e le volontà», osserva cauto l’ex presidente del Consiglio, aggiungendo che «personalmente ritengo che la soluzione più limpida sarebbe andare al più presto al voto». L’occasione di eliminare l’avversario modificando la legge elettorale è ghiotta: con il ritorno al proporzionale, ancorché corretto «alla tedesca», il Pdl potrebbe conquistare la maggioranza relativa ma restare escluso dal governo; la Lega potrebbe decidere dopo il voto con chi allearsi, forte comunque della sua pattuglia di parlamentari; il Terzo polo potrebbe mettere all’asta i propri voti in cambio di palazzo Chigi. Tutti contenti, insomma, tranne Berlusconi: che infatti, non per caso, nasce alla politica con il bipolarismo.
Gli avversari di D’Alema si consolano pensando che molto spesso le sue ardite strategie si sono risolte in un castello di sabbia che la marea ha travolto, e più di una previsione è stata clamorosamente smentita dai fatti.

Ma i giocatori, si sa, non smettono mai di giocare. E questa volta la posta in gioco - la restaurazione del placido consociativismo della Prima repubblica - è molto, molto allettante. Berlusconi avvisato, mezzo salvato.

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