Roma - Con l'elezione di Gianfranco Fini è caduto un tabù. Per la prima volta dal ’48 a presiedere Montecitorio c'è un uomo di destra. Ci sono stati i comunisti (Pietro Ingrao, Nilde Iotti, Fausto Bertinotti) e i post-comunisti (Giorgio Napolitano, Luciano Violante), i democristiani (Giovanni Gronchi, Giovanni Leone, Brunetto Bucciarelli Ducci e Oscar Luigi Scalfaro) e i post-Dc (Pier Ferdinando Casini), i socialisti (Sandro Pertini) e anche i leghisti (Irene Pivetti). Ma mai un erede di quella che nella storia repubblicana è la tradizione politica della destra. Fini invece ha già detto senza imbarazzi che da presidente sarà "uomo di parte". Resterà uomo di partito, leader di quella destra moderata, moderna ed europea che proprio lui, ultimo segretario missino, ha accompagnato alla svolta di Fiuggi e più di recente nel Popolo della Libertà. E con un calembour il leader di An lascia intendere quale profilo sceglierà: "Essere uomo di parte, convinto dei propri valori, non significa non garantire imparzialità".
Alla Camera dei deputati Fini arriva a 31 anni, nel 1983. Da allora non ha mai lasciato Montecitorio, eletto per otto intere legislature. La sua carriera politica inizia da giovane segretario del Fronte della Gioventù, nel ’77. Solo dieci anni dopo, alla festa del Msi-Dn a Mirabello, Giorgio Almirante lo indica poco prima di morire come suo delfino. Nel congresso di Sorrento, a dicembre, Fini viene eletto segretario e (a parte la breve parentesi della segreteria di Pino Rauti tra il ’90 e il ’91) resta alla guida prima del Msi e poi di Alleanza Nazionale (carica che ora però lascerà per sedere sullo scranno più alto di Montecitorio).
L’approdo di Fini alla guida della Camera - che qualcuno vede come lo ’sdogamentò definitivo del delfino di Almirante - è oggi un fatto del tutto normale, l’importante tassello che si aggiunge ad un curriculum istituzionale pieno di onorificenze: vicepresidente del Consiglio nel secondo governo Berlusconi, tra i costituenti alla Convenzione europea, ministro degli Esteri dal novembre 2004.
Non altrettanto scontato, nel primo breve governo Berlusconi, era stato invece l’ingresso a Palazzo Chigi di un vicepresidente (Giuseppe Tatarella) e ben cinque ministri della destra. Allora, Fini denunciava "la menzognera campagna di delegittimazione delle sinistre su un inesistente pericolo di ritorno al fascismo". Pochi mesi dopo, con la svolta di Fiuggi, Fini chiede ai camerati missini di "lasciare la casa del padre", per poi incamminarsi su una strada di drastiche revisioni storiche: le visite a San Sabba, alle Fosse Ardeatine e ad Auschwitz, il mea culpa sulle leggi razziali, la catalogazione della Repubblica Sociale tra le pagine vergognose della storia italiana, il fascismo nell’alveo di ciò che fu il "Male Assoluto", il mutato giudizio su Mussolini non più grande statista del ’900. Fino allo storico viaggio in Israele, a lungo negato, dove il leader della destra italiana riceve l’accoglienza solenne riservata a capi di Stato e premier e passa la cruna dell’ago del giudizio degli ’italkim’, gli ebrei italiani che fino all’ultimo si erano rifiutati di stringergli la mano.
Intanto, Fini gira l’Europa da Costituente: Londra, Madrid, Parigi, Berlino, Vienna, tutte le capitali dell’Est. Un instancabile viaggiare nel mondo, fino ai faccia a faccia con i grandi della terra: a Mosca nella Dacia di Putin, al Cairo con Mubarak, a Washington e New York, Hanoi, Nassiriya, Kabul. Il leader di An mette crediti diplomatici nel suo carniere, poi utili per l’approdo alla Farnesina. Insieme, un tragitto parallelo fatto di scelte politiche e piccoli passi privati. La fondazione "Fare Futuro", la caparbia volontà di andare verso la grande famiglia popolare europea, le "roptures" alla Sarkozy per rimodulare in chiave di modernità tutte le parole d’ordine della destra: patria, famiglia, identità, sicurezza, giustizia sociale, lotta al crimine, meritocrazia.
E le battaglie su temi etici, droga, laicismo, la proposta choc del voto agli immigrati, l’appoggio a sorpresa alla fecondazione assistita.
Fino alla nuova svolta politica, con la scelta di sciogliere Alleanza Nazionale nel Popolo delle Libertà (che un congresso ratificherà entro l’anno o al massimo nei primi mesi del 2009) e di archiviare quindi il simbolo, dove ancora arde minuscola la Fiamma in campo bianco azzurro.Pezzi del partito si sono persi per strada, qualcuno ha fieramente girato le spalle, ma Fini è andato avanti con posizioni di ostentata rottura, cercando il riconoscimento della sua piena crescita democratica.
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