Controstorie

Il profondo sud degli Usa è pronto per la prima governatrice nera

Testa a testa in Georgia fra democratici e repubblicani. La vittoria di Stacey Abrams, donna e afroamericana, passerebbe alla storia

Il profondo sud degli Usa è pronto per  la prima governatrice nera

da Atlanta (Usa)

Alla fine del comizio anche lei si fa i selfie dal palco - «Al mio tre gridate: noi siamo la Georgia!» - ma poco prima l'ha detto chiaro e tondo: «La politica non è virtuale, si vince consumando le scarpe, bussando alle porte dei quartieri dove di solito non ti fermi nemmeno se ti scappa la pipì, guardando la gente negli occhi per convincerli ad andare a votare; la storia si fa con i piedi per terra non con le dita sugli schermi; questa campagna elettorale la voglio alla vecchia maniera, umana!». Ovazione liberatoria. La palestra dell'high school, nell'hinterland di Atlanta, strabocca di adrenalina (e di smartphone), sotto i canestri si confondono i ruoli sociali e i colori della pelle, si percepisce il brivido antico del ritorno alla realtà, della politica boots on the ground.

Pare che la campagna di Stacey Abrams qui in Georgia abbia dettato la linea a tutto il partito democratico in queste elezioni di mid term del 6 novembre, quando si rinnova tutta la Camera, un terzo del Senato e molti incarichi locali tra cui i governatori di 36 stati: per cancellare l'immagine di partito élitario, la supponenza metropolitan-chic che ha fatto perdere Hillary Clinton ed evitare il confronto con Donald Trump sul terreno a lui più naturale, quello dei social, ecco che i candidati dem escono dai quartieri liberal e corretti, battono i suburbia e addirittura le aree rurali, entrano nelle stalle e salgono col megafono sulle trebbiatrici. A Stacey è venuto facile buttarsi nella mischia senza infingimenti digitali e puntare sulla chimica dei corpi, sull'empatia: ne conosce gli ingredienti, non solo perché scrive romanzi d'amore (sotto lo pseudonimo di Selena Montgomery), ma viene dalle campagne, ha un fratello con problemi di droga, è una nera dalla corporatura massiccia, candidata governatore in uno Stato guidato da oltre vent'anni dai repubblicani e da 250 da uomini. Non ha nulla da perdere, ha addirittura scelto come vice un'altra donna; eppure potrebbe vincere e diventare l'icona di queste elezioni: prima governatrice nera nella storia degli Stati Uniti. E per di più in Georgia, uno degli stati simbolo del Sud segregazionista e della lotta sanguinosa per i diritti civili, terra natale del reverendo Martin Luther King, sepolto in fondo a Auburn avenue, la strada simbolo della comunità afroamericana di Atlanta. Soprattutto Stacey, 45 anni, laureata a Yale e avvocato fiscalista, deve vedersela con Brian Kemp, ultra-trumpista (negli spot elettorali appare con camicia a scacchi e carabina), forte del potere consolidato dai repubblicani nei decenni in ogni settore della vita pubblica. I sondaggi danno un testa a testa, Kemp avrebbe un solo punto di vantaggio. Ma il suo vero vantaggio è quello di essere il segretario di Stato uscente, cioè colui che gestisce la burocrazia elettorale. Il suo ufficio, in base a una nuova legge introdotta un anno fa, ha bloccato 53mila registrazioni al voto, che per il 75% sono di afroamericani: cavilli, discordanze di un'iniziale tra anagrafe e patente di guida, magari un numero della social security che si legge male. «Potrebbero essere i voti necessari alla vittoria di Stacey» dice Nse Ufot, direttrice del New Georgia Project, organizzazione che si occupa di motivare gli elettori ad andare a votare e che ha denunciato per prima alcuni problemi con le registrazioni ai danni delle minoranze. Infatti il vero nemico della Abrams in queste elezioni - ma dei democratici in genere nel Paese - è la forte demotivazione di un elettorato nero, spesso boicottato, che si arrende di fronte alla prospettiva di passare da uno sportello all'altro. «Anche se è vero che chi non è riuscito a registrarsi può presentarsi ai seggi con un documento d'identità», dice la signora Ufot, «gli scrutinatori, senza la regolare registrazione potrebbero anche decidere di non farli votare». Ma lo staff della Abrams è convinto che alla fine questa vicenda potrebbe diventare un boomerang per i repubblicani. «Impedire il voto non è solo un problema democratico», dice Stacey dal palco, «ma ricrea un clima di paura e di fatalismo nella popolazione nera. Dobbiamo mobilitarci, ritrovare l'energia che ha messo in moto i nostri genitori negli anni Cinquanta e Sessanta, con il voto si può avere accesso a una buona scuola pubblica e a un buon ospedale, rinunciare all'unico destino possibile per molti poveri, cioè il carcere».

Una vittoria della Abrams segnerebbe un prima e un dopo nella storia del South, ma arriverebbe anche in una stagione di grandi cambiamenti nella regione. Già con la presidenza Obama - durante la quale è esploso il fenomeno della violenza della polizia nei confronti dei neri, spesso uccisi pur se disarmati - negli Stati del Sud ha preso piede, nella comunità afroamericana ma non solo, una strategia di comunicazione civile, basata sul ricordo e sulla testimonianza, che ha portato negli ultimi mesi alla nascita di un «percorso dei diritti», chiamato la Civil Rights Trail, che collega 14 Stati e un centinaio tra siti e musei che celebrano la lotta antisegregazionista nelle ex terre confederate, una delle più drammatiche stagioni della storia moderna. L'iniziativa, nel cinquantesimo dalla morte di Martin Luther King, è partita dall'Alabama, cuore di tenebra dello scontro razziale, ed è stata allargata e coordinata da Travel South, un consorzio turistico e bipartisan, che ha deciso di emanciparsi da quell'immagine plumbea e trasformare, con un'intelligente operazione culturale, quello che era un tabù in una narrazione senza finzioni per potere difendere l'appartenenza a terre, come la Georgia, di struggente bellezza e carattere, spesso sconosciute agli stessi americani del Nord. In Auburn avenue, davanti a un piatto di pollo fritto, lo spiega bene Katie, professionista bianca di San Francisco che sta percorrendo la Trail con la famiglia: «Sappiamo muoverci a occhi chiusi a Parigi o a Milano, di questa parte del nostro Paese non sappiamo nulla, siamo sempre stati alla larga, forse per uno strano senso di colpa o di pudore. Per noi è una scoperta straordinaria, quasi un viaggio esotico.

Chissà che proprio da qui non possa partire un nuovo modo di sentirsi tutti americani».

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