"Pronto a rifare il sindaco se Bologna mi vuole"

Guazzaloca, ex primo cittadino, rivela in anteprima la sua disponibilità a ricandidarsi: "Per battermi nel 2004 la sinistra fece cambiare domicilio a migliaia di elettori. Paura di perdere? Non ho paura di niente. Ma non mi bastano le pacche sulla spalla, altra gente deve metterci la faccia"

"Pronto a rifare il sindaco se Bologna mi vuole"

Giorgio Guazzaloca è pronto. Come nel 1999. Come nel 2004. Come il John Wayne vestito da cowboy nella statuetta in serie limitata - la 773ª di 1.200 - che fa bella mostra sulla sua scrivania: «Vede? Tiene la canna del fucile rivolta verso terra, ma ci vuol niente a fargliela rialzare». Basta solo che i concittadini gli chiedano di ricandidarsi a sindaco nel 2009. Lo hanno già fatto in 15.000, nero su bianco, e le firme aumentano di giorno in giorno. Circolano già le spillette all’americana, quelle smaltate da appuntare sul bavero della giacca, con la scritta «Cittadini di Bologna per Giorgio Guazzaloca», la silhouette delle due torri e il nome del partito, che non è un partito e forse proprio per questo ha più forza di un partito: «Movimento della città».
A ciascuno il suo idolo. Il Cinese aveva Tex Willer, il Guazza ha The Duke. Ma stavolta non si ripeterà, come cinque anni fa, la sfida all’O.K. Corral: dopo aver annusato che aria tira per il Partito democratico, Sergio Cofferati ha rinunciato. A fine mandato tornerà a Genova per stare vicino al figlio Edoardo, nato lo scorso novembre, e alla compagna Raffaella. Tra la famiglia e la politica, ha scelto la prima. Per sapere che cosa avrebbe fatto l’avversario al posto suo, bisognerebbe interpellare le figlie di Guazzaloca, 38 e 29 anni, che avevano una 9 anni e l’altra appena 8 mesi quando il loro papà rimase vedovo e si dovette improvvisare anche mamma per crescerle.
Guazzaloca rompe gli indugi col Giornale: «Se mi verrà offerto di rifare il sindaco, non mi sottrarrò». Ma sa perfettamente che la sua candidatura, benché a furor di popolo, deve prima passare al vaglio di Silvio Berlusconi, leader del popolo con la «p» maiuscola, quello della libertà. I rapporti fra i due sono cordialissimi, anche se le occasioni d’incontro sono state appena tre. L’ultima volta fu nella Sala della Lupa a Montecitorio, con la sinistra che rumoreggiava e si chiedeva quali competenze potesse avere un ex macellaio per entrare a far parte dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato. Dal Cavaliere arrivò un incoraggiamento tranchant: «Guazzaloca, diglielo a questi che competenti si nasce».
Anche lavoratori si nasce. Ieri mattina, come sempre, alle 6 il Guazza era già nel suo ufficio di via Orefici con vista sulla cattedrale di San Petronio. Quand’è a Roma, alle 7.30 lo trovi all’Antitrust. Ha mantenuto gli orari del beccaio. «A scuola ero piuttosto svogliato, così mio padre Guido mi mandò a bottega da un suo collega, il macellaio Minelli. “Bene, presentati qui domani alle 4”, mi disse Minelli. Tornai a casa sbigottito: papà, quello vuole che vada alle 4 del mattino! E mio padre, senza degnarmi di uno sguardo: “Me hai andéva a mezzanot”. Allora i macellai lavoravano di notte come i fornai, anche perché le donne facevano la spesa alle 6».
Negli ultimi due anni Guazzaloca ha persino trovato il tempo di tenere ogni sabato sul Resto del Carlino una rubrica satirica, Nessun dorma. La firmava con un nom de plum: Arturo. Un omaggio al professor Arturo Mora, che fu direttore del macello pubblico e docente alla facoltà di veterinaria. «Per me è stato un maestro di vita. Gli devo tutto. È sepolto a Fratta Polesine, accanto a Giacomo Matteotti. Il 27 giugno 1999, appena eletto sindaco, andai sulla sua tomba. Ancor oggi, quando devo prendere una decisione, mi chiedo: che farebbe il professor Mora?».
Immaginava che Cofferati non si sarebbe ricandidato?
«È stata una sorpresa relativa. Col senno di poi, si capiscono tante cose. La difficile coabitazione col suo partito. La mai trovata sintonia con i bolognesi. Un bilancio del mandato oggettivamente negativo».
La sinistra si rifugia nel privato perché non ha più nulla da dire?
«Si attacca alle formulette senza sostanza e all’accanimento contro l’avversario. Non ha progetti né per le città né per il Paese. È all’8 settembre. Dovrebbe adottare come inno ufficiale Colpa del bajon, un motivetto che Nilla Pizzi e Gino Latilla cantavano mezzo secolo fa. L’arcivescovo vede una Bologna sempre più disgregata? “La colpa non è mia, è colpa del bajon”. Siamo diventati la capitale dei furti in appartamento? “La colpa non è mia, è colpa del bajon”. Persino le Coop criticano il Comune? “La colpa non è mia, è colpa del bajon”».
Lo scrittore Erri De Luca ha definito Cofferati «un incidente di percorso che rimane oscuro» agli italiani: invece di diventare capo della sinistra, è diventato sindaco di Bologna. E ora lo mettono a cambiare pannolini.
«Se dovessi definire Cofferati con una parola, direi: enigmatico. Se dovessi usarne due: oggetto misterioso. In quel momento era l’unico che poteva battermi. Da segretario della Cgil aveva portato a Roma tre milioni di lavoratori contro l’articolo 18. Vabbè, secondo La Repubblica i rilievi fotografici aerei dimostravano che più di 350.000 persone al Circo Massimo non ci possono stare...».
Lei ci rimise le penne lo stesso.
«Vorrei ricordare che il mio exploit lo ebbi proprio nel 2004, quando, come ha rilevato l’Istituto Cattaneo, fui in assoluto il candidato sindaco più votato d’Italia, col 18,5% di voti in più rispetto alla coalizione che mi sosteneva. Ma la mobilitazione della sinistra fece aumentare a dismisura il numero dei votanti. Gli ex comunisti sono bravissimi in queste cose. È la forza dell’apparato. Lei lo sapeva che basta chiedere il domicilio per tre mesi in una città, presso un parente o un amico, per ottenere il diritto di voto alle comunali? Bisognerebbe andare a contare le migliaia di elettori residenti altrove che traslocarono a Bologna in quel periodo...».
In che rapporti è con Cofferati?
«Umanamente mi sta abbastanza simpatico. Sono attratto da chi è antipatico ai più. È troppo serio, o forse serioso. Certo, se l’avessero messo alla guida del Pd, difficilmente sarebbe riuscito a far peggio di Walter Veltroni».
È stato davvero uno sceriffo, come poteva trasparire dalle ordinanze contro i lavavetri, gli occupanti abusivi di case, i clandestini accampati sulle rive del Reno?
«Qui c’è un equivoco lessicale. Il rispetto della legalità è un’espressione che può andar bene per Rifondazione. La sicurezza è un’altra cosa. I lavavetri sono tornati per le strade e gli argini sono di nuovo nello stato di prima, più o meno».
Se Cofferati si fosse candidato, quante probabilità di vittoria avrebbe avuto?
«L’ultimo sondaggio del Resto del Carlino dava me al 51% e lui al 49%. Ma io non ho ancora cominciato la campagna elettorale».
Nell’eventualità, chi potrebbe essere lo sfidante di Guazzaloca?
«In queste ore il Pd si sta orientando su Flavio Delbono, vicepresidente della Regione, già candidato in pectore nel 2004. Un uomo vicino a Romano Prodi».
Se alla fine la scelta del Pdl cadesse su di lei, che condizioni porrebbe per la candidatura?
«Ho chiesto ai bolognesi di metterci le loro facce. Non mi bastano le pacche sulla spalla. Voglio una dimostrazione palese, altrimenti me ne sto all’Antitrust. Serve una nuova costituente, i cittadini devono riscoprire la partecipazione. Non sono l’uomo della provvidenza. Oggi nessuno può governare da solo».
Il segretario cittadino della Lega, Manes Bernardini, l’ha fatto sapere fin da luglio: «Mai con Guazzaloca».
«Non influenza la mia decisione».
Senza il Carroccio, sarebbe impossibile per lei farcela al primo turno.
«Non mi pongo il problema. È uno schema mentale che non mi appartiene. Il mio partito sono i cittadini di Bologna».
Non ha paura di perdere un’altra volta?
«Non ho paura di niente. Alberto Moravia sosteneva che non esistono il coraggio e la paura, ma solo la coscienza e l’incoscienza. Sarò incosciente».
Pare che sul suo nome ci fosse il veto di Gianfranco Fini, verso il quale nel febbraio scorso lei manifestò «disistima».
«Fu un eccesso di legittima difesa, un fallo di reazione. Mi aspettavo che Fini, in visita a Bologna, condannasse uno stillicidio di sgradevoli attacchi contro di me provenienti da esponenti locali di An. Invece si limitò a una dichiarazione un po’ democristiana. Ma è acqua passata».
Giancarlo Mazzuca, già direttore del Resto del Carlino, oggi deputato del Pdl, s’era dichiarato disponibile a fare il sindaco. Adesso le chiede di affrettarsi a ufficializzare la sua candidatura.
«Su Mazzuca sospendo il giudizio. Tutte le volte che mi cita, gli mettono una foto sul suo ex giornale e lui è contento. Preferisco parlare di suo fratello Alberto, che ha scritto la mia biografia. Il libro uscirà in primavera. L’ho fatto leggere in anteprima ad Aldo Cazzullo, inviato del Corriere della Sera, che stimo molto, e non solo perché il nonno era presidente dei macellai di Alba. “Straordinario”, mi ha detto ieri al telefono dal Vietnam. In effetti è una storia straordinaria: quella di un maggiolino che vola perché non sa di non poter volare».
Continua a considerarsi un antipolitico in prestito alla politica?
«Non sono un antipolitico. Ho solo compiuto un percorso fuori dalle cellule di partito e dalle parrocchie e dentro le associazioni: 30 anni presidente dei macellai, 15 dell’associazione commercianti, 7 della Camera di commercio».
Non si annoia a Roma all’Antitrust?
«Faccio la stessa vita che farei a Bologna. Ceno alle 19.30 con gli americani, gli unici che mangiano a quell’ora, da Fortunato al Pantheon, che è vicino all’hotel Del Senato dove alloggio. Alle 20.30 mi ritiro in camera. Guardo Striscia la notizia, leggo un po’, spengo la luce. Roma è tentacolare e io non voglio farmi risucchiare dai suoi tentacoli, cioè dai suoi salotti».
Che cosa le manca di Bologna quando è a Roma?
«Quando sono a Roma mi manca Bologna e quando sono a Bologna non mi manca Roma».
Elvio Ubaldi, il sindaco che strappò Parma all’Ulivo seguendo le sue orme, le mosse un rimprovero: «Guazzaloca ha peccato d’orgoglio. Ha pensato che bastasse aver vinto, e un po’ di popolarità. Non ha capito che se diventi sindaco moderato di una città di sinistra non ti basta essere il sindaco, devi anche farlo. E farlo due volte di più degli altri».
«Da quello che mi ha dimostrato in seguito, direi che ha cambiato parere. S’era dimenticato dei miei otto mesi d’ospedale e di un altro anno e mezzo in condizioni precarie. È difficile giudicare un tumore stando a Parma».
Chi è stato il miglior sindaco di Bologna, Guazzaloca a parte?
«La storia dice Giuseppe Dozza. Io dico Guido Fanti, che tra gli Anni 60 e 70 fu un innovatore».
Che cosa resta del comunismo in questa città?
«La base è ancora comunista. Il vertice è un ibrido che tiene insieme tutto e il contrario di tutto. Il modo di governare dei postcomunisti è esaurito. Devono mettersi a tavolino e formulare un progetto politico-amministrativo decente. Non possono riproporre il dozzismo dopo 60 anni».
Ma lei per chi votava durante la dittatura rossa?
«Pri. Simpatizzavo per Ugo La Malfa».
Bologna è ancora «sazia e disperata», come la definì l’allora arcivescovo Giacomo Biffi?
«Oggi è solo disperata».
A proposito di sazietà, ma è vero che quando lei era presidente della Camera di commercio custodiva la misura esatta della tagliatella con la stessa cura con cui all’Ufficio per i pesi e le misure di Parigi si conserva il metro in platino e iridio?
«Sì, 7 millimetri da cruda. Il campione in oro fu voluto da Orio Vergani, il grande giornalista che fondò l’Accademia italiana della cucina».
Quali priorità indicherebbe nel suo programma elettorale?
«La sicurezza al primo posto. Dobbiamo rioccupare il territorio. Prenda piazza Verdi: di notte è off-limits. I bolognesi si sono rassegnati all’idea che la loro città dopo una certa ora diventi di qualcun altro. È un fatalismo deleterio. E poi serve un progetto ventennale che trasferisca fuori dal perimetro urbano la fiera, l’ospedale, il palazzo di giustizia e l’università, altrimenti il centro storico soffocherà nei fumi di scarico. Abbiamo 100.000 studenti universitari, la metà dei quali forestieri: l’attuale quartiere fieristico potrebbe diventare un campus».
Dopo un anno che Cofferati era sindaco, Marisa Monti Riffeser, editrice del Carlino, mi confidò: «Non fa niente. Una cosa indegna. Bologna è invivibile. Quando ci torno non porto fuori nemmeno la mia barboncina, tanto sono luridi i portici».
«Fotografia spietata, ma realistica».
È così difficile far lavare le strade?
«È come per le scritte sui muri: se perdi troppo tempo in chiacchiere, poi non rimonti più. Un sindaco deve lavorare, amministrare, non parlare».
Cofferati aveva messo a disposizione dei musulmani un’area per una grande moschea. Lei come si sarebbe comportato al suo posto?
«Quella moschea era destinata a diventare un centro di aggregazione interregionale degli islamici. Non avrei mai approvato un progetto simile».


Mi perdoni se le faccio un’ultima domanda molto indelicata, ma che in America spesso si rivela decisiva nella scelta dei candidati: la sua salute come va?
«Bene, grazie. È arrivato da me un caro amico in lacrime: “Giorgio, in giro dicono che hai i giorni contati”. Gli ho risposto che tutti abbiamo i giorni contati».
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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