La proposta Facciamo il ministero del Tesoro dei Beni culturali

A bene ascoltarlo il lamento di Sandro Bondi è struggente. Illustrando la sua azione in due anni di ministero, ha manifestato una malinconia per la indisponibilità dell’intellighenzia italiana a valutare il suo impegno e le sue buone intenzioni. Non c’è una cultura di destra e una cultura di sinistra, c’è un patrimonio comune di valori, di sensibilità. Nelle sue parole c’era più amarezza che delusione; e un sentimento simile a quello dell’Adelchi manzoniano quando descrive il suo disagio di fronte alla crudeltà del mondo. Nel volto di Bondi c’è, sempre di più, una espressione lottesca come a denunciare una inquietudine e una sofferenza segreta, e la voce si modula come quella di un tenore di grazia che esprima le sue pene. Nessun dubbio che egli abbia sentito la responsabilità di un impegno così importante e abbia cercato soluzioni in un momento difficile per l’economia italiana. Così ha esordito: «Il mio compito non è stato semplice» e ho dovuto agire «in territorio nemico e doppiamente accidentato... sperando che la sinistra comprendesse il valore di un’alleanza a favore della cultura, e poi battendomi da solo, quando tutti i ponti che ho cercato di costruire sono stati fatti crollare».
Io, che sono stato sempre intransigente con i ministri dei Beni culturali, devo riconoscere, benché spesso inascoltato, le buone intenzioni e le difficoltà di Bondi che è stato chiamato a pagare la sua fedeltà a Berlusconi. D’altra parte la sua conversione non è un fatto episodico e incomprensibile: è, a sua volta, una questione culturale che ha riguardato altre personalità, transitate dalla sinistra verso una difficile, e forse impossibile in Italia, rivoluzione liberale. Penso a Lucio Colletti, a Giuliano Ferrara, a Saverio Vertone, a Ferdinando Adornato, a Piero Melograni. Eppure nessuno di loro ha sofferto, ed è stato demonizzato, come Bondi. In questa posizione scomoda la sinistra ha dimostrato una indisponibilità per così dire ontologica, oscillante fra dogmatismo e moralismo, in nome di una superiorità morale che non le ha impedito di fare i peggiori disastri proprio a Roma durante le amministrazioni comunali e i governi di sinistra. Penso all’Ara Pacis e alla invereconda sistemazione del Marc’Aurelio, sottratto alla michelangiolesca piazza del Campidoglio. E penso allo scempio contro il paesaggio compiuto in Puglia con l’amministrazione Vendola che non ha avuto bisogno della P3 per consentire alla mafia di installare torri eoliche nel più assoluto disprezzo del paesaggio: le ha fatte e basta. In questi due anni, pazientemente Bondi ha cercato di affrontare nodi difficili per l’amministrazione dei musei, per i finanziamenti agli enti lirici fino allo scontro con Tremonti per potere entrare nel merito dei tagli agli istituti culturali.
È stata una scelta coraggiosa e non abbastanza apprezzata; ma mi ha consentito di immaginare un nuovo ministero nato dalla fusione di Economia e Cultura, nesso inscindibile della nostra società: il ministero del Tesoro dei Beni culturali. Il risultato di questo imprevisto decisionismo di Bondi ha consentito di limitare il danno e di lasciare «inalterato il contributo pubblico per l’anno in corso». Bondi, con l’ausilio del direttore generale Resca, ha dimostrato che la cultura produce sviluppo e può e deve diventare utile all’economia. Investire in cultura dovrebbe essere in Italia il compito primario nel ministro del Tesoro, il cui patrimonio non è nelle riserve auree ma nelle opere d’arte spesso trascurate e dimenticate, ma distribuite in ogni parte d’Italia e, spesso, molto più importanti di quanto non di sappia. Ma tra gli strumenti per produrre profitti ci sono le grandi mostre, oltre ai monumenti insigni. E mi permetto di segnalare a Bondi, con la necessità di un pronunciamento molto severo in materia di sopravvalutate fonti di energia alternativa e di difesa del paesaggio, la necessità di salvare l’operato di alcuni comitati nazionali che hanno prodotto ottimi risultati (penso al Comitato Parmigianino, 280mila visitatori, Mattia Preti 350mila, Mantegna 950mila) mentre leggo della decisione di chiuderli salvo quello dedicato a Cavour (in occasione del 150esimo della morte dello statista).
Sarebbe infatti un grave errore per la promozione del disertato museo Statale di Arezzo, del bellissimo santuario di San Pio V a Bosco Marengo, e delle importanti testimonianze dell’artista a Firenze e a Venezia, non celebrare il naturale fondatore del ministero dei Beni culturali, l’architetto pittore e scrittore Giorgio Vasari, nato cinquecento anni fa, nel 1511. Vasari è per la storia dell’arte quello che Cavour è per la storia d’Italia e certamente una serie di mostre in quattro città di questo straordinario personaggio avrebbe risultati superiori a una mostra celebrativa di Cavour, sul quale è meglio leggere un libro che vedere un’esposizione di documenti. I comitati nazionali non sono enti inutili ma luoghi di elaborazione di iniziative che promuovono gli stessi musei attraverso il richiamo di esposizioni temporanee.

Caravaggio è stato sorprendente come lo furono Parmigianino e Correggio; ma Vasari costituisce l’essenza stessa della storia dell’arte e il fondamento ideale del ministero nel quale Bondi spende, con struggimento, le sue energie.

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