La prossima volta vadano a Cattolica

Tutto è bene quel che finisce bene. Siamo lieti e sollevati nel sapere che l’avventura dei cinque turisti sequestrati la scorsa settimana nell’Egitto meridionale si è conclusa felicemente. Però adesso basta. Capisco che può farsi irresistibile la voglia di spingersi nel cuore del deserto per rimirare graffiti rupestri - la testa stilizzata di una gazzella, l’impronta di una mano, cose così - e ancor più irresistibile il piacere di mostrare a parenti e amici, una volta fatto ritorno a casa, i filmini che testimoniano la strabiliante esperienza. Però, siccome il mondo è grande e vario, sabbia ce n’è in quantità e di graffiti pure, i cultori della materia facciano il favore di scegliere, per la prossima scorribanda, zone non a rischio. Come era, come è, quella del Gebel Uwainat, dove appunto si erano recati, con scorta armata tanto perché non ci fossero dubbi, Walter Barotto, Michele Barrera, Giovanna Quaglia, Mirella De Giuli e Lorella Paganelli. L’invito, cortese ma fermo, a indirizzarsi verso mete più tranquille ma non per questo meno interessanti (ci sarebbero, lancio questa proposta, anche magnifici graffiti, camuni per la precisione, in Val Camonica) muove da due esigenze. La prima è che ci sta a cuore l’incolumità personale di tanta brava gente. La seconda è che mettendola a repentaglio, l’incolumità, capita di cacciarsi nei guai. E al Paese gli sale il cuore in gola. E tutti son lì a preoccuparsi. E la Farnesina deve attivare l’unità di crisi. E si mettono a sfrecciare gli aerei con a bordo i mediatori, gli esperti, gli amici degli amici del giaguaro. E magari si passa in banca per ritirare consistenti paccate di dollari, di piccolo taglio e con i numeri di serie non consecutivi. E cominciano le trattative (versione diplomatica della nota pratica conosciuta come «tirare sul prezzo»). E intanto l’ansia aumenta. E poi, quando va bene, si paga, i sequestratori salutano e se ne vanno col grisbì mentre i sequestrati, allegri e sorridenti, tornano a casa.
Be’, così non va. Un viaggio turistico non può trasformarsi in un affare di Stato e non può, non deve concludersi, come a volte si conclude, con un salasso di Stato. Ricordino, i futuri partecipanti a escursioni in terre insidiose, che il riscatto lo pagano i contribuenti, lo paghiamo noi. E che dunque il sollievo di saperli, se mai incappassero in qualche disavventura, sani e salvi è sempre accompagnato da una riflessione: ma perché non se ne stanno a casa? Ma perché la prossima volta non vanno a Cattolica o a Filettino Campo Staffi dove il peggio che può capitar loro è di smarrire il cellulare?
Il ministero degli Esteri aggiorna, si può dire quotidianamente, un elenco di Paesi considerati a rischio. Elenco del quale dovrebbero tener conto sia le agenzie di viaggi sia i turisti in vena di brividi esotici e di avventure «no limits», «estreme». Non facendolo, gli uni e gli altri ci tengono sotto ricatto, ben sapendo che se una comitiva di vacanzieri viene sequestrata ci si attiverà per trarli d’impiccio magari pagando il riscatto. La solidarietà è una gran cosa e si porta molto, di questi tempi.

Però quando è estorta non dico che perda di valore, ma assume i contorni del balzello. Per essere più chiari, della tangente. E tutto per poter dire: io sono stato nel Gebel Uwainat, certi graffiti...
Paolo Granzotto

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