Sembrava morta, la protesta. È risorta. E ora tutto può accadere. Non sappiamo con esattezza quante persone siano scese nelle strade di Teheran. Ma sappiamo perché lo hanno fatto. Sentono che il regime del presidente Ahmadinejad e della Guida Suprema Ali Khamenei non è più compatto come prima. Hanno capito di non essere soli e di poter contare finalmente sull'appoggio di Obama, che con il suo messaggio di speranza aveva spinto i giovani ad osare come mai prima d'ora, ma che poi li aveva delusi, quasi traditi. Per 12 giorni si è rifiutato di pronunciare una sola parola di condanna contro il regime, a cui, lo si è saputo ieri, aveva addirittura offerto una pace duratura e la cogestione del Golfo Persico, con una lettera inviata allo stesso Khamenei a metà maggio. Per 12 giorni Obama ha taciuto nel timore di compromettere quella che oggi appare come un'offerta improvvida, ma quando il regime ha accusato gli Usa di fomentare nell'ombra la rivolta, il presidente americano ha rotto gli indugi, biasimando la repressione con parole finalmente forti. E gli studenti, che non sono al corrente di quell'offerta, sono tornati in piazza. La protesta di ieri si è trasformata in una rivolta obamiana. Quei giovani sono convinti che l'America, la nuova America che predica la tolleranza, è dalla loro parte. E tanto basta a ritrovare le forze.
Tanto più che le crepe nel Palazzo sono sempre più vistose. Khamenei e Ahmadinejad hanno puntato tutto sulla forza e sull'intimidazione, come accade nei regimi dittatoriali. Di solito funziona: la maggior parte delle rivoluzioni popolari vengono represse. Hanno successo solo quando vengono guidate da una mano esperta: un gruppo organizzato o una potenza straniera, che pianifica e guida la piazza. Oppure trionfano quando l'esercito passa dalla parte dei rivoltosi. La rivoluzione arancione in Ucraina, quella rosa in Georgia furono ispirate da Washington. Il dittatore romeno Ceausescu cadde quando i pretoriani si ribellarono.
Oggi in Iran nessuno, a quanto si è capito, sta manovrando i manifestanti. Il candidato sconfitto Moussavi è un simbolo, ma non ha la forza né il carisma del leader. La protesta è genuina, spontanea e per questo doppiamente ammirevole. Ma non poter contare su una regia riduce le chances di vittoria. Cattiva notizia. Per vincere gli studenti devono sperare, paradossalmente, proprio nell'esercito. Ahmadinejad e Khamenei non hanno più alcuna legittimità popolare: resistono solo grazie al sostegno dei pasdaran, che sembrava incrollabile. Ora non più. Alcune figure di spicco come il presidente del Parlamento Ali Larijiani si sono già distanziate, mentre aumentano le voci di profondi dissensi ai vertici militari. Uno dei generali del corpo d'élite dei Guardiani della Rivoluzione islamica, Ali ad Fadly, sarebbe stato arrestato per essersi rifiutato di ordinare ai suoi uomini di reprimere la protesta. Secondo al Arabya, 14 ex comandanti avrebbero solidarizzato con lui.
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