La protesta del tè per dire no alle tasse

Per ora è solo una tentazione, ma sempre più credibile, perché condivisa dal governatore del secondo Stato più popoloso degli Usa. Il Texas vuole proclamare la sovranità, invocando il decimo emendamento della Costituzione. E non è l’unico Stato a muoversi in questa direzione; in altri venti, tra cui California, Pennsylvania, Georgia, Missouri, Montana alcuni parlamentari hanno avanzato richieste analoghe.
Snobbato finora come poco più che folkloristico, il movimento potrebbe prendere consistenza, proprio perché a cavalcarlo è il governatore del Texas, il repubblicano Rick Perry, che l’altra sera ha annunciato il sostegno a una risoluzione bipartisan presentata da quattro deputati del Parlamento locale, che invoca il riconoscimento della sovranità dello Stato, nello spirito dei Padri fondatori, che oggi, a loro giudizio, viene tradito.
«Questo è un appello che rivolgo non solo al Texas, ma a tutta la nazione», ha annunciato Perry in conferenza stampa. «Il governo federale è diventato oppressivo e non possiamo più accettare che venga a dirci come dobbiamo gestire la nostra realtà». La denuncia è netta ed è mirata contro un’Amministrazione, quella di Obama, e un Congresso, a maggioranza democratica, che, nel tentativo di salvare gli Usa dalla bancarotta, diventano sempre più interventisti, con derive socialiste (a giudizio di alcuni commentatori) e in un contesto che sarebbe addirittura incostituzionale.
Già. Secondo il governatore e molti deputati di entrambi i partiti, Washington sta violando i principi sanciti dal decimo emendamento, arrogandosi decisioni che in realtà spettano ai governi locali.
«Milioni di texani sono stufi di subire le angherie del potere federale», ha affermato Perry, elogiando la risoluzione che prevede l’abolizione di ogni sanzione amministrativa e penale per gli Stati che rifiutano di approvare leggi o finanziamenti decisi a Washington.
Il messaggio è chiaro: gli Usa devono tornare ad essere una vera federazione composta da Stati sovrani che, volontariamente, delegano pochi e limitati poteri al governo centrale. Oggi invece la Casa Bianca e il Congresso possono costringerli all’obbedienza anche in ambiti come l’educazione, la sanità, la politica dei trasporti e, di conseguenza, hanno l’ultima parola sui finanziamenti.
Washington batte cassa o meglio: decide programmi i cui costi devono, però, essere sostenuti dai contribuenti dei singoli Stati. Quelli in difficoltà finanziaria, come California e Pennsylvania, non ce la fanno e si ribellano; quelli in salute, come il Texas, si chiedono perché mai debbano obbedire e rivendicano il diritto di gestire autonomamente i fondi. «Abbiamo dimostrato di essere più bravi ed efficienti del governo federale, che sprofonda in un marasma finanziario», ha affermato il governatore: «Per quale ragione dobbiamo continuare ad ubbidire?».
È la domanda che inquieta le istituzioni federali. Ed è significativo che l’annuncio di Perry sia stato ignorato dal governo e, di riflesso, dai grandi media. Sì, il governo ha paura.

Portata alle estreme conseguenze, la ribellione del Texas implicherebbe la secessione; ma anche un ritorno allo spirito dei Padri fondatori appare improponibile. Con la recessione, un deficit stellare e un esercito enorme da mantenere, Washington ha bisogno soprattutto di stabilità. E allora preferisce tacere, sperando che il silenzio basti a scongiurare il peggio.

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