PROUST Vita di una madre nel nome del figlio

È difficile darsi da soli il bacio della buonanotte. Quando il saluto più rassicurante, unico viatico che ci può accompagnare nell’incerto cammino fra le tenebre nemiche è negato, dobbiamo provvedere in altro modo. Ma come? Una preghiera, un’immagine da fissare con l’occhio della mente, il suono di una parola, un gesto, una fotografia... Era difficile anche per Marcel Proust, darsi da solo il bacio della buonanotte. Ma lui, al bacio della mamma proprio non poteva rinunciare. Così lo traspose, amplificandolo come si amplifica una nota d’organo fra le volte d’una cattedrale, in migliaia e migliaia di pagine. Tutta la sua opera, in fondo, non è che un bacio di Maman, tiepido nido dove stare accoccolati fino al sorgere del sole e oltre.
Di questi baci avvertiamo ora l’intera gamma che va dalla dolce fermezza al complice rimprovero, dall’inconsolabile tristezza alla composta gioia, leggendo La signora Proust, di Evelyne Bloch-Dano (il Melangolo, pagg. 318, euro 22, traduzione di Carlo Gazzelli). L’ingombrante figlio maggiore qui, finalmente, non toglie spazio alla madre. Al contrario, serve da cartina tornasole per rivelarcene i tratti distintivi, le inclinazioni, le paure, le passioni. Nata Weil il 21 aprile 1849, la ragazza che il 3 settembre 1870 (il giorno dopo la sconfitta di Sedan...) sposa il 36enne Adrien, figlio di un umile droghiere della Beauce ma anche primario e professore agrégé di medicina, viene da solidissime radici ebraiche. Ha tutto: bellezza, soldi, cultura, sensibilità, classe. E tutto investirà per il bene dei suoi: il marito troppo spesso assente, i due figli (dopo Marcel, nato il 10 luglio ’71, arriverà, il 24 maggio ’73, anche Robert), l’adorata madre Adèle.
«La vita di Jeanne - scrive l’autrice - sarà una lunga lotta per creare un certo distacco fra lei e suo figlio (ovviamente Marcel, perché Robert imparerà ben presto a reggersi sulle proprie gambe), metterlo in condizione di vivere senza di lei - ma senza riuscire a staccarsene lei stessa, tanto l’ansia è la materia stessa del suo amore per lui». Un’ansia originata dalla gravidanza condotta durante la repressione della Comune, da un parto travagliatissimo e dall’episodio decisivo della prima, violentissima crisi d’asma di Marcel, avvenuta nell’81. Quell’ansia sarà il cordone ombelicale che nulla e nessuno saprà mai tagliare. Bloch-Dano definisce Jeanne «ostaggio d’amore, fra un figlio che gliene chiede troppo e un marito che gliene chiede troppo poco». Quanto ad Adrien, il suo sostanziale silenzio riportato dalle fonti è davvero assordante: lui ha i viaggi all’estero, le conferenze, il lavoro in ospedale e, quando resta in casa, dopo cena infila le pantofole in tutti i sensi, abbioccandosi al suono del pianoforte suonato dalla moglie.
Marcel, invece... All’amico Maurice Duplay fece una confessione per certi versi agghiacciante: «Ogni volta che la vedo con una cattiva cera, provo per la mamma un sentimento complesso. Ce l’ho con lei perché mi fa stare in ansia: mi trovo, nei suoi confronti, nella situazione del condannato verso il suo carnefice; se non che, in questo caso, il condannato ama il carnefice, e lo odia proprio perché lo ama». Ansia, condanna, amore, odio: questo eterno fanciullo perennemente malato fu la croce che la donna portò sulle spalle fino alla fine. «È triste non potere avere insieme salute ed affetto», arriva a scriverle Marcel, come a imputarle un distacco che invece era l’estremo tentativo di liberarlo dal morboso vincolo...
Povera Jeanne, proprio quando stava per guarire da un male non fisico ma che la consumava nell’anima, cioè il rammarico per un figlio troppo suo; quando ormai s’era messa il cuore in pace per i tanti amici maschi troppo intimi del suo Marcel; quando aveva capito che lui mai e poi mai avrebbe avuto una mogliettina alla quale lei, Maman, potesse passare il testimone del suo cuore; quando, addirittura, si era fatta collaboratrice indefessa del lavoro del suo «piccolo», con le traduzioni di Ruskin... ecco l’abbattersi di drammi in serie: la morte della sua, di Maman, Adèle, poi del brillante zio Louis, del padre Nathè, del marito. E, infine, quella «macchina» costruita per fare del bene agli altri si logora rapidamente: le crisi di uremia s’intensificano, i polmoni sono gonfi d’acqua. Lei è debolissima, fatica a mangiare e a camminare.
A nulla vale l’ultimo soggiorno ad Evian con Marcel. Anzi, proprio all’inizio del settembre 1905 le sue condizioni si aggravano. Sono lontani gli anni in cui la regina dei Proust era l’impeccabile padrona di casa stimata da tutti, sempre pronta a reggere le sorti non di una ma di due famiglie. Da Evian Robert la riporta a Parigi. Siamo all’epilogo del 26 settembre. Nel suo letto di dolore, raccoglie le forze per dire: «Che quel bambino là non abbia paura, la sua mamma non lo lascerà». Inutile chiedersi a chi si riferisse.

Una sola volta il suo Marcel rievocherà per iscritto la morte della madre: «Solo una volta, vedendo che mi trattenevo per non piangere, aggrottò le sopracciglia, fece, sorridendo, una faccia severa, e nel suo parlare già confuso distinsi le parole: “Se non siete romano, siate degno di esserlo”». È una citazione da Molière. Un pizzico di commedia per alleggerire al figlio il peso del dramma. L’ultimo bacio della buonanotte.

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