Politica

La prova: il capo ha sempre ragione

La reazione del leader di Forza Italia alle ultime critiche mette nell’angolo i ribelli Anche Ratzinger alle prese con i suoi vescovi

Che le cose non andassero come devono andare mi era già parso chiaro osservando, incredulo, la rivolta dei vescovi contro il papa. La gelida, quando non polemica, accoglienza del motu proprio del 7 luglio 2007 attraverso il quale Benedetto XVI precisò che la liturgia preconciliare, che non era mai stata abbandonata, doveva essere tenuta «nel debito onore», prefigura un vero e proprio attentato, sorprendente nel seno della chiesa, al principio di autorità. E tanto più perché questa reazione non si deve a don Gallo o don Vitaliano ma a personalità di rilievo nella gerarchia ecclesiastica come il cardinal Poletti di Torino, il cardinal Martini, l’arcivescovo di Milano Tettamanzi e monsignor Brandolini, vescovo di Sora e membro della commissione liturgica della Cei. Il più serio di tutti, il presidente della Cei monsignor Bagnasco, con la sua consueta sobrietà ed eleganza, ha subito accolto il documento papale. Venti di rivolta ai vertici della chiesa? Se accade in quel mondo integro e impenetrabile, regolato dall’ubbidienza gerarchica (fino a ieri), nulla di strano che capiti nella dimensione laica e democratica della vita politica. Certo, Berlusconi non è particolarmente sensibile, se non per distrazione e, talvolta, rassegnazione, al dibattito democratico e soprattutto a mettere in discussione la sua leadership. Ma è, d’altra parte, logico, che in una coalizione, il capo sia il responsabile del partito che ha il più alto consenso, regola matematica elementare che soltanto una sinistra non democratica ha ritenuto di sovvertire scegliendo come capo (con le difficoltà che vediamo) l’unico esponente politico senza partito, e dotato, inevitabilmente, del minor consenso rispetto ai segretari dei partiti maggiori. Il gioco falso e patetico delle primarie ha fatto poi il resto; e l’attuale, dissonante, presidenza del Partito democratico ha evidenziato la contraddizione. Mentre turbamenti, contrasti, spaccature, secessioni attraversano la sinistra, sarebbe sembrato logico e sensato che il centrodestra rimanesse compatto pur nell’inferiorità dei numeri nella rappresentanza alle due Camere. Al Senato a tal punto risicata da aver indotto l’onesto D’Alema a rimpiangere la tanto opportuna, quanto mancata, grande coalizione. In queste condizioni, come attribuire la colpa di non avere fatto cadere Prodi? Berlusconi può sperare in un diverso orientamento di alcuni senatori, ricercarlo, favorirlo, ma non può. Così i rimproveri in tempi diversi e con diversi metodi di Casini, di Fini e anche di Bossi appaiono incomprensibili ai pazienti lettori di centrodestra della altrettanto insensata ribellione dei vescovi al papa. L’autorità deve essere riconosciuta, non discussa. Attraverso questo processo abbiamo adesso due forze simmetriche: nel cuore del centrosinistra il Partito democratico, con le derive a sinistra di Mussi e di Salvi, al centro di Mastella e di Dini; e nel cuore del centrodestra Forza Italia con le dissociazioni di Alleanza nazionale (a sua volta minata dalla Destra di Storace) e l’Udc, tentata dalle componenti moderate del centrosinistra. In questo disordine, in questa mancanza di rispetto del principio di autorità, Berlusconi ha fatto bene a sciogliere la Casa delle libertà. In quel modo evidenziando un’altra, più vistosa contraddizione. Egli, fautore forzato del maggioritario, si trova ora a decretarne la fine. Con questo gesto di orgoglio e di richiamo dei suoi egli ha finalmente ricondotto alle loro dimensioni Gianfranco Fini e lo stesso Veltroni. Irriducibili sostenitori del bipolarismo. Nulla di più lontano dalla natura degli italiani, tendenzialmente moderati, di questa forzatura che li costringe a dividersi in due sole fazioni, in modo secco favorendo lo scontro invece del dialogo. Finalmente, con le mani libere, Berlusconi potrà mettere in difficoltà Fini e Veltroni negoziando con D’Alema, Bertinotti, Bossi, Casini, Mastella, il sistema proporzionale dove il partito di maggioranza relativa, una volta affermata la sua supremazia (al momento inevitabilmente di Forza Italia), cercherà gli alleati, gli affini, i disponibili a condividere un programma politico e di governo. Una vera e propria coalizione di maggioranza su progetti condivisi; e perfino, nella condivisione di una situazione di emergenza o di un rilancio dell’economia, una grande coalizione che tenga insieme più del 70 per cento degli elettori e, per conseguenza del proporzionale, dei partiti rispetto al 30 per cento che persegue diversi obiettivi e che oggi ha un formidabile potere di ricatto. Lo strappo di Berlusconi, il gesto radicale di oggi non consentono alternative. Inutile cercare di tenere insieme, per fare due blocchi, i titolari di visioni talvolta opposte, come impone il bipolarismo, con il sistema maggioritario. È arrivata finalmente l’ora di restituire a ognuno la propria identità, di farsi riconoscere dalle distinzioni, secondo i principi del sistema proporzionale. Soltanto in questo modo, Berlusconi sembra averlo capito, gli elettori potranno tornare «a essere», appartenendo a questo o a quel partito, non limitandosi «a stare» come impone il giogo del maggioritario. Così è potuto accadere che molti, «centristi», come Dini o Mastella, pur non essendo di sinistra, stessero a sinistra. Per necessità, con forzatura. Oggi, sembra finalmente che questa condizione innaturale sia terminata.

Ancora una volta, Berlusconi, senza averlo voluto, costretto dai suoi stessi alleati, ha, prima di Veltroni, restituito la libertà ai cittadini e risarcito le condizioni perché la democrazia si esprima senza limitazioni.

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