La prova che smonta le accuse a Fininvest

Dieci anni dopo, siamo punto e daccapo. Le menzogne passate in giudicato sul presunto patrimonio mafioso del premier, son tornate d’attualità. Spacciate, anche e non solo da Repubblica, come spunto per nuove indagini sui link «finanziari» fra Cosa nostra e il Cavaliere. Il documento che pubblichiamo sotto serve a ricordare come stanno le cose a chi ha ripreso a fantasticare sui flussi sporchi di denaro delle holding Fininvest sulla base di quanto inizialmente riportato in una perizia dal consulente del pool di Palermo, Francesco Giuffrida, poi dallo stesso drasticamente ridimensionata nella «transazione» del 26 luglio 2007 con il gruppo di Segrate che l’aveva citato per danni.
L’atto sottoscritto da quest’ex consulente della Banca d’Italia chiamato a ricostruire la genesi della Fininvest al processo Dell’Utri, non ammette repliche: nessun capitale mafioso è transitato nelle casse del Biscione. Non esiste una carenza di trasparenza sulla genesi del «tesoro». Nessun «peccato originale» è riscontrato. Punto. Per tardiva ammissione dell’interessato, la perizia che tanto servì ad alimentare gigantesche campagne mediatiche, fu carente e «parziale» anche perché non vennero approfondite «otto operazioni finanziarie». L’intero lavoro («continuamente sottoposto allo specifico e ineludibile coordinamento e controllo dei pm») andava sviluppato e soprattutto completato, ma ciò non fu possibile poiché il fascicolo originario finì in archivio. E se si decise di «acquisire determinati atti» a discapito di altri «fu per decisione dei magistrati». Non sua. Stando alla procura di Palermo le investigazioni contabili si rendono necessarie nel dicembre del 1997 quando alcuni pentiti cominciano a parlare di «consistenti apporti economici di provenienza mafiosa» confluiti nella Fininvest. I pm si affidano a Giuffrida per scandagliare il patrimonio di Silvio Berlusconi. Testuale: «Per verificare la legittimità degli apporti finanziari intervenuti alle origini della Fininvest da parte di soggetti terzi».
Il consulente impiega un anno e mezzo per ultimare gli accertamenti. Ad aprile ’99 deposita tutto, e tutto il gip Scaduti fa finire in archivio per mancanza di prove. Lo stesso malloppo di carte, però, tempo sei mesi ce lo ritroviamo al processo Dell’Utri. Quando Giuffrida è convocato in aula a illustrare la relazione, scoppia il finimondo per quelle «otto operazioni» di cui, ammette, non si è riusciti a identificare l’origine della provvista. Tanto basta a far ipotizzare che sotto c’è la mafia dei colletti bianchi. L’azienda pazienta fino al 2006, anno della definizione del primo grado di giudizio dove Giuffrida forniva le sue prestazione contabili ai pm del processo Dell’Utri. Dopodiché sferra l’offensiva. Cita Giuffrida per danni anche perché per «quelle otto operazioni», spiega, poteva benissimo «verificare che i soldi erano pacificamente rivenienti da persone, fisiche o giuridiche, tutte immediatamente riferibili all’allora costituendo gruppo Fininvest e quindi senza alcun afflusso di denaro dall’esterno».Spiazzato dalla citazione civile Giuffrida spiega che «quella» consulenza era incompleta poiché costituiva una bozza ancora tutta da integrare, «era solo una prima ipotesi di lavoro», quando così non era. Perché se altri accertamenti non vennero disposti ciò era dovuto alla sopravvenuta archiviazione del procedimento per il quale era stata inizialmente redatta. Bene.

Ieri Repubblica, riprendendo la sentenza di primo grado del processo Dell’Utri, rilanciava fiera: «La consulenza dell’accusa, nonostante la parziale documentazione messa a disposizione, evidenzia la scarsa trasparenza o l’anomalia di molte operazioni effettuate dal gruppo Fininvest negli anni 1975-1984».

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