Le provocazioni di un’arte che non conosce la bellezza

Artisticamente parlando, appartengo all’uomo qualunque e a quella generazione che identifica l’arte con tutto ciò che, partendo da doti innate, tecnica ed esperienza riesce a produrre creazioni di tipo estetico, capaci di comunicare messaggi ed emozioni. Una visione ingenua, me ne rendo conto, però tenacemente convinta che il bello sia quello che piace vedendolo. Ciò che Nicolas Poussin chiama «diletto» e Delacroix «una festa per l’occhio» o, per dirla col grande teologo russo Evdokimov, «una evidenza indimostrabile. Il mistero del bello, che illumina dal di dentro l’esteriorità, come l’anima irradia misteriosamente in uno sguardo».
L’arte, quando è vera, non è mai un fatto soggettivo. Essa ha il potere di accedere alla verità e alla bellezza, beni oggettivi che appartengono all’umanità, ma che solo alcuni riescono ad intravedere, diventando benefattori che trasmettono al mondo luci ed emozioni.
Una sorta di mistica, che partendo dal dono di pochi, riesce a divulgare l’indicibile, facendo di ogni uomo, a prescindere dalla sua cultura, un possibile contemplativo, nella misura in cui sa mettersi in ascolto. La sindrome di Stendhal non è che un’ubriacatura di bello, come l’estasi di un mistico davanti al trascendente.
Faccio queste considerazioni a voce alta e mi rendo conto di quanto sia lontana una certa concezione moderna dell’arte dalla mia maniera di intenderla. Il fatto è che mi sento refrattario davanti a tante nuove proposte, come se avessi perso il treno della modernità.
In passato non ho provato nulla davanti ai barattoli di escrementi esposti alla Biennale di Venezia, ma neppure davanti alle tele tagliate di Fontana, pur rispettando lo spessore dell’artista in altre opere. Non provo nulla davanti ai Post-it che tappezzano i raccoglitori di spazzatura in qualche calle di Venezia, come non avverto emozioni davanti a soluzioni che mi ricordano i ponteggi dei muratori. Peggio per me che non me ne intendo, cari lettori.
In questi giorni apprendo e guardo le foto di varie mostre in giro per l’Italia. Da Bologna una Madonna, con pretese artistiche, viene riprodotta mentre piange sperma. A Milano campeggia la caricatura blasfema di un busto di Benedetto XVI, in (s)veste di trans. Nella stessa mostra, una foto riproduce un’utilitaria, ferma ai bordi della strada, mentre il suo conducente tenta l’abbordo a un transessuale dai connotati inconfondibili di Gesù Cristo...
Interpello l’arte, prima ancora della morale. Quale è l’ispirazione di queste opere e quale l’esito estetico? Il giudizio è soggettivo, ma l’idea oggettiva da cui prendono corpo non lascia margini di dubbio: più che al bello, sembrano nascere dalla passione politica, che si traduce in livore anticlericale e desiderio di dissacrazione.
È vero che gli artisti sono sempre artefici di cultura.

Ma quale grandezza si cela dietro ad un’arte che si mobilita per sbertucciare il sentimento religioso dell’uomo, l’atto più umano e tenero di ogni persona? Quale senso della democrazia e quale morale possiede, chi attacca i simboli cristiani, profanando lo spazio morale del cittadino che crede a questi simboli? È davvero arte, o meschina stampella politica?
brunofasani@yahoo.it

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