Per presentarsi stavolta lei dice: ««In questi tre anni ho voluto vivere la mia vita». E poi: «Ho lavorato a un paio di film». E poi: «Sono entrata in studio di registrazione e sapevo esattamente che suoni volevo». E poi ancora: «E mi sono sposata». Detto per inciso, Avril Lavigne ha ventidue anni, proprio ventidue e non un mese di più, e in questi giorni è la cantante che vende più dischi al mondo: quasi due milioni in una settimana netta. Per la precisione, il suo The best damn thing vale un milione e 700mila copie alla faccia della superstizione, visto che in Europa è uscito venerdì 13 e in America martedì 17 aprile. Ora è al primo posto in dodici Paesi (Italia e Stati Uniti compresi), al secondo in tre e via dicendo, mettendo in fila un rosario di successi che neppure fosse Madonna. Eppure questa ragazzina biondastra con gli occhi bistrati non guida un caravanserraglio del pop, non gozzoviglia negli effetti speciali e non ci pensa neppure a lanciare provocazioni semplicemente perché non le importa. D’altronde «nella mia vita io sono davvero felice» ha detto alla Cnn. E quindi: chissenefrega. Avril Lavigne fa pop punk e si può descrivere in due modi a seconda del grado di simpatia che suscita. Primo modo: le sue sono canzoni pop che graffiano, basate su ritornelli azzeccati e su chitarre ruspanti secondo il modello tracciato da Complicated, il singolo che la lanciò nel 2002, quando aveva sedici anni e non un mese di più. Secondo modo: il suo è punk furbetto, spogliato da quella cattiveria anarchica che non piace alle masse, ma abbastanza aggressivo per titillare il ribellismo adolescenziale. L’esempio perfetto è il suo nuovo singolo Girlfriend (pure questo al primo posto negli Stati Uniti), che è un manuale d’amore per liceali in libera uscita, infiammati da amoretti e tradimenti che si consumano più velocemente dell’intervallo tra una lezione e l’altra. Il video, poi, è un’allegoria di quelle atmosfere stile Danny e Sandy in Grease, divertenti per carità però un pizzico di romanticismo, santo cielo. D’altronde questo impone il mercato: o alzi l’età media dei fan oppure l’abbassi drasticamente, altrimenti bye bye alle vendite. Avril Lavigne l’ha abbassata ancor di più, e da coetanea è diventata la sorella maggiore dei suoi ascoltatori. «Sono cambiata un sacco, ora sono più saggia» dice adesso come se prima non lo fosse. E invece a quindici anni, quando i suoi compagni di scuola si preoccupavano tutt’al più della pizza al sabato sera, lei ha preso armi e bagagli, se ne è andata via da Napanee, nell’Ontario canadese, e si è trasferita a Manhattan poco prima che si sbriciolassero le Torri Gemelle. Poi Los Angeles. Era una delle tante, è rimasta l’unica. Il suo primo cd Let go ha venduto quasi dieci milioni di copie, il secondo Under my skin ha fatto un po’ peggio: era, o provava ad essere, più introspettivo, meno ridanciano perché ogni tanto viene voglia di cantare anche canzoni come «Cadere a pezzi» (Fall to pieces) oppure «Casa di nessuno» (Nobody’s home) che non sono semplici risatine sguaiate e solubili. Adesso però «voglio divertirmi perché ho lavorato così tanto nella mia vita». Accidenti. E quindi nelle dodici canzoni di The best damn thing Avril Lavigne pesta duro come in I don’t have to try oppure si accoccola per sussurrare (si fa per dire) «lo sai che sono qui per te» in Keep holding on ma non si lascia prendere neppure per un istante da voglie esistenzialiste o tantomeno introspettive.
Lei, che non immaginava «che fare un disco fosse così divertente», è lo stereotipo perfetto della mobile generation, della generazione di ragazzi che forma gusti, ritmi, stili di vita sui cellulari, sugli sms, sulle foto da due megapixel fatte dal display senza andare un po’ in profondità. Semplicemente didascaliche. Semplicemente fugaci. Semplicemente troppo facili da criticare perché prima bisogna capirle: e Avril Lavigne è la via giusta per farlo.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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