Pyongyang sospende il nucleare Washington: fine delle sanzioni

Bush disposto a relazioni diplomatiche con il regime comunista. Malumori in Giappone

Come anticipato lunedì notte, sono stati resi noti a Pechino i punti dell’accordo grazie al quale la Corea del Nord, sedici mesi dopo il test sotterraneo della sua prima bomba atomica, si è incamminata sulla strada del disarmo nucleare. Il regime comunista di Pyongyang si è impegnato con i rappresentanti degli altri cinque Paesi presenti al negoziato (Cina, Stati Uniti, Russia, Corea del Sud e Giappone) a «chiudere e sigillare» sotto il controllo dell’Agenzia atomica internazionale (cioè di fatto dell’Onu) e con il proposito della chiusura definitiva, i suoi impianti nucleari di Yongbyon e a fornire una lista di tutti i suoi altri programmi nucleari.
In cambio gli Stati Uniti avvieranno colloqui bilaterali per risolvere le questioni pendenti (in primo luogo le sanzioni finanziarie che strangolano l’economia nordcoreana, conseguenza dell’inclusione nella famosa lista degli «Stati canaglia») e per stabilire relazioni diplomatiche con la Corea del Nord. Pyongyang ottiene anche le forniture energetiche per le quali aveva tanto insistito: 50mila tonnellate di petrolio greggio entro la «fase iniziale del processo di disarmo» che durerà 60 giorni, altre 950mila quando saranno stati effettivamente disattivati gli impianti nucleari esistenti e sarà stata fornita una lista completa delle altre attività nucleari, che includono l’estrazione di plutonio da barre di combustibile esausto.
Reazioni unanimemente positive nel mondo, in particolare il presidente americano George W. Bush ha detto che l’intesa raggiunta a Pechino «è la migliore opportunità» per porre fine con mezzi diplomatici ai programmi nucleari della Corea del Nord. A Washington, peraltro, non tutti si sono trovati d’accordo: John Bolton, ex ambasciatore presso le Nazioni Unite notoriamente su posizioni molto conservatrici, ha parlato di «intesa insensata», incassando una secca replica dal segretario di Stato Condoleezza Rice, che definisce invece l’accordo «un buon inizio» e «un segnale per l’Iran».
Stati Uniti a parte, chi ha fino all’ultimo resistito all’intesa con la Corea del Nord è il Giappone. La Rice ha dovuto telefonare personalmente a Tokyo per convincere i vertici del governo a rinunciare a una contrapposizione frontale sulla questione dei giapponesi rapiti dai nordcoreani (circa 150 persone negli anni Settanta e Ottanta), che rischiava di far saltare l’intero percorso positivo fatto a Pechino. Il premier Shinzo Abe insisteva nel rifiutare le forniture di petrolio al regime di Kim Jong-il (che recentemente era arrivato a minacciare il Giappone con un test missilistico) se prima la questione non fosse stata definitivamente chiarita. Le pressioni di Washington hanno sortito l’effetto desiderato, ma l’ansietà di Tokyo rimane e non a caso un punto degli accordi di Pechino prevede l’apertura di un tavolo negoziale tra Tokyo e Pyongyang. Va ricordato che i timori per l’attivismo militare nordcoreano erano stati un fattore importante nell’ascesa politica dell’attuale premier e di altri «falchi» del partito liberaldemocratico al governo.
Dopo l’intesa di Pechino molta strada dovrà comunque essere ancora percorsa.

Lo ha ripetuto fino alla noia in Cina il capo delegazione americano Christopher Hill e lo conferma l’agenzia ufficiale nordcoreana quando precisa che la sospensione delle attività nucleari deve considerarsi «temporanea». Del resto, non si sa nemmeno quante bombe atomiche abbia fabbricato davvero Pyongyang: c’è chi dice tre, chi addirittura dodici.

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