Ma qual è la vera natura dell’anima?

Lo studio di Adriano Prosperi, che parte da un caso di infanticidio del 1709, aiuta a riflettere su molte questioni etiche di oggi

Se mai verrà scritta una storia generale dell’orrore umano, l’infanticidio sarà al primo posto. Eppure, è strano: anche per un gesto che, a mente fredda, riesce impensabile, spetta alla ragione contestualizzarlo, metterlo a confronto con eventi analoghi, ricostruire i contesti. E scoprire che la soppressione d’una vita appena iniziata ha avuto, nel tempo, motivazioni, cause, spinte consapevoli o inconsce diverse. Non sempre l’infanticidio nasce dalla follia nera: a volte fu un gesto più vicino alla pratica sociale che all’eccezionalità del crimine. E venne utilizzato come atto d’accusa, pezza d’appoggio con cui rilanciare violenze e persecuzioni: le vicende delle comunità ebraiche in sospetto d’infanticidio rituale attraversano ancora la storia intera. Ma chi quella storia intende indagarla, dovrà rassegnarsi a cercare la verità anche nelle parti più oscure del comportamento umano. E dovrà svolgere il suo compito frontalmente. Così ha fatto Adriano Prosperi in Dare l’anima (Einaudi) che prende le mosse da una indagine attorno all’infanticidio commesso a Bologna nel 1709 da certa Lucia Cremonini: serva di casa ingravidata durante il Carnevale da un «prete giovane» poi sparito, venne giustiziata il 22 gennaio dell’anno seguente dopo indagini, confessione completa e non estorta, regolare processo e pentimento probabilmente sincero. La ricerca va oltre i dati d’archivio, scava lo status sociale e culturale delle non rare figure analoghe alla Cremonini. Prosperi fa sapere chi erano le donne che si liberavano delle creature, da chi venivano aiutate, chi eventualmente copriva, chi le denunziava. Ne viene fuori un quadro spettrale. Di miserabili violentate da fame, lavoro, ignoranze, uomini. L’indagine si dilunga sulle vittime nate e subito cancellate. Qui, Prosperi ricorda il pathos del Manzoni storico quando poneva alla Storia stessa il più elementare, universale e irrisolto dei quesiti: perché esiste il male, perché quel male colpisce i poveri e gli inermi facendoli diventare carnefici? Di fatto, la vittima non ha mai avuto nome. Subito cancellata da vita e tempo, ha però corso il rischio, concettuale e teologico, di morire due volte. Soppressa a parto appena avvenuto senza aver ricevuto il battesimo (senza che gli fosse «data l’anima») la sua destinazione rimase per secoli incerta. Il dibattito attorno a quelle esistenze paradossalmente mancate e insieme future fu lungo, articolato. Bloccata la strada verso il Paradiso, un certo rigore agostiniano voleva l’animula esclusa in eterno dalla salvezza, mentre la versione «vincente» della pietas cristiana culminata nel Concilio tridentino tentò con successo di porla, invece, in una sorta di località atopica, neutrale: un limbo la cui costruzione richiese anni di elaborazione, dispute. La storia di Prosperi, dunque, mette insieme scarnificazioni e immagini consolatorie dell’aldilà, pattume mondano e grandissime astrazioni teologiche. Anime e corpi di soppressi e soppressori.

E adesso, nel 2006, quando la bioetica sta diventando il centro nodale della politica, e le forme di controllo sulla «nuda vita» la misura per valutare il tasso di eticità di un organismo di potere, un’indagine del genere fa ripensare a quanto sono mobili e instabili concetti che troppo spesso si danno per acquisiti e perenni: crimine, giustizia, colpa, perdono, esistenza, nascita, morte.

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