Cultura e Spettacoli

A qualcuno piace Curtis Piccolo elogio di Tony il playboy dai mille volti

Ebreo senza sembrarlo, come Paul Newman, Bernard Schwarz di New York divenne Tony Curtis nella Hollywood degli anni Cinquanta. Infatti allora si era divi passando - grazie agli occhi azzurri - per wasp, specie quando, come lui, si era originari dell’Ungheria. Morto ieri a Henderson, Nevada, all’età di 85 anni, Tony Curtis venne dunque classificato seduttore. Ma chi non l’ha visto giovane ora stenta a dedurre dalle fessure lasciate dal gonfiore del viso l’azzurro dei suoi occhi di allora. Effetto di un’impietosa senescenza, aggravata da alcol pesanti e chirurghi incompetenti. Vedendolo dieci anni fa, per caso, nella galleria d’arte di Cannes dove esponeva discutibilissimi quadri, nemmeno io scorgevo più nulla dello sguardo vispo che aveva sedotto Marilyn Monroe sul set di A qualcuno piace caldo di Billy Wilder.
In quel film così bello, la storia fra Curtis, musicista travestito da donna, e la Monroe, donna travestita da musicista, era fragile. Fallito il corteggiamento «saffico», lui si fingeva petroliere e la invitava sul «suo» yacht. E lei ci andava, oh se ci andava… Pochi anni dopo, a salire veramente sullo yacht di un vero armatore, Onassis, sarà Jacqueline Kennedy, ormai vedova dell’uomo, il presidente degli Stati Uniti, che aveva condiviso di malagrazia proprio con Marilyn...
Per quella tresca la Monroe morì. Era incinta di John Kennedy? O di suo fratello Robert, ministro della Giustizia? O di Curtis, come disse lui dopo? Se il figlio era davvero suo, c’è da chiedersi come, se per lui baciare Marilyn - lo raccontò lui stesso - era «come baciare Hitler».
Prima e dopo A qualcuno piace caldo, Curtis alternò due personaggi che Wilder aveva fuso in uno: il seduttore arido e il seduttore che mette giudizio. I personaggi di Curtis corrispondevano dunque a quelli che Franco Fabrizi aveva nel cinema italiani. Abbondanza di mogli (inclusa Janet Leigh) e figli (inclusa Jamie Lee, avuta dalla Leigh) escludono però che il paragone con Fabrizi possa applicarsi all’interprete, oltre che al personaggio.
L’elenco dei tanti film con Curtis ne comprende di importanti o comunque di insoliti: evade dal carcere ma non dalla discriminazione razziale ne La parete di fango di Stanley Kramer; truffa per istinto nel Grande impostore di Robert Mulligan; stupra una mulatta e si redime cadendo sul fronte alpino-ligure nel 1945 in Cenere sotto il sole di Delmer Daves; è eroe di guerra per caso a Iwo Jima, e soprattutto triste, nel Sesto uomo di Delbert Mann ed è eroe di guerra per caso, ma allegro, su uno strano sommergibile in Operazione sottoveste di Blake Edwards; è schiavo (sodomita, ma solo nell’edizione integrale) in Spartacus di Stanley Kubrick; è mutilato I vichinghi di Richard Fleischer, col quale Curtis girerà poi Lo strangolatore di Boston nel ruolo del maniaco.
Mentre Curtis cominciava ad avere un’età, la tv prendeva il sopravvento sul cinema. E lui, che già aveva lavorato ne La cintura di castità di Pasquale Festa Campanile (gliene resterà un buon ricordo), cercherà una seconda giovinezza trovandola nei telefilm Attenti a quei due, dove è un play-boy americano che rivaleggia con Roger Moore, aristocratico inglese. Dalla serie deriveranno, ognuno per cucitura di due telefilm insieme, Attenti a quei due… chiamate Londra; Operazione Costa Brava; Qui Montecarlo… attenti a quei due; Che coppia… quei due; e Attenti a quei due… ancora insieme. Abbastanza inguardabili allora e oggi, essi però ristabilirono il rango del cinquantenne Curtis, più di quanto avrebbe fatto l’Oscar che non vinse: forse perché i suoi personaggi drammatici non erano stati presi sul serio, mentre i suoi personaggi brillanti non davano l’alone giusto.
Solo negli ultimi film Curtis divenne l’ebreo che nei primi era stato saltuariamente (in Houdini di George Marshall, per esempio). Ne fu sottovalutata anche la prestazione in Big Boss di Menahem Golan, su Louis «Lepke» Buchalter, malvivente americano degli anni Quaranta e Cinquanta. Ancor più lo fu quella in Ritorno a Berlino di Thomas Brasch, ricca di spunti autobiografici.

Quello della memoria olocaustica era un autobus per la carriera ormai affollato.

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