Reagan o la vecchia Dc? Le grandi sfide americane o la Francia di Sarkozy? Il problema magari è tutto qui. È una questione di occhiali. Berlusconi e Fini parlano del Pdl, ma non vedono la stessa cosa. Il premier lo ha detto davanti alle telecamere, dopo una domanda di Vespa. «Ci sono due concezioni diverse in campo. Io vedo i partiti come movimenti presenti sul territorio, che devono organizzarsi nei momenti elettorali. Per Fini e i professionisti della politica, il partito deve svolgere funzioni più allargate, fino a discutere le decisioni che devono essere prese dal governo e dai gruppi parlamentari». L’ultimo Berlusconi è diventato più duro. Il compromesso lo stanca. Si è convinto che in passato la «vecchia politica» non l’abbia lasciato governare, troppi vincoli, troppe pastoie. Quando ha battuto Veltroni ha giurato a se stesso che non si sarebbe lasciato di nuovo legare le mani da piccole questioni e ricatti più o meno meschini. Da lì nasce l’antipatia per certe lamentele post democristiane, per la guerra di poltrone e poltroncine. È per questo che ha lasciato Casini fuori dalla porta. E quando pensa al partito, al Popolo delle libertà, ha in testa qualcosa che assomiglia alla grande macchina elettorale repubblicana o democratica. È la tentazione americana. Il candidato che parla di piazza in piazza e si conquista gli elettori con il carisma, in una sfida uno contro uno. Il partito lo ha scelto per vincere. Poi tocca a lui governare, con il suo staff, con i suoi uomini, per tutto il tempo in cui è in carica, con un Congresso che c’è, ma lo lascia libero di fare. È un modello, un punto di riferimento, molto in linea con il suo carattere. Non è una dittatura, ma un rapporto di fiducia con chi lo ha votato. Berlusconi ha sempre cercato di andare davanti agli italiani e dire: se pensate che io sia la persona giusta per risolvere questi problemi, votatemi. Lui o me. Votate. Poi tocca a chi vince mantenere le promesse. Fino alle prossime elezioni. Il partito di Berlusconi è funzionale a questa idea della politica. Il voto serve a eleggere e sanzionare. In mezzo c’è il governo. Il partito a quel punto si fa da parte. Non consiglia. Non interviene. Non rompe la scatole. Il premier risponde solo al popolo italiano. Il ruolo di mediazione dei partiti funziona per lo più al momento del voto.
Il partito di Fini è un’altra storia, si porta nelle vene il passato, la prima repubblica, la politica che lui, il delfino di Almirante, ha fatto da ragazzo, in un partito di frontiera, confinato a destra, come un ospite indesiderato a cui ogni tanto il padrone di casa chiedeva una manciata di voti, quando serviva. Il partito di Fini è il perno della politica. È lì che ci si confronta, con la dialettica delle correnti, qualche volta sporca, con i colonnelli da tenere a bada e i notabili sparsi sul territorio, con gli intellettuali, qualcuno d’area, qualcun altro di corte. Il partito è una casa, un’identità e, soprattutto, è potere. È il principe della politica italiana, come lo sognava Gramsci. È la Dc e il Pci, poi dipende dall’interpretazione. Ma è quello. È il Novecento. Quello che Fini ci mette di suo è la vocazione francese. È lo sguardo a Sarkozy, alla metamorfosi della destra e del gollismo. È il nuovo volto della tradizione. Fini vuole un «partito ideologico» ma senza ideologie. E anche questa in fondo è una scommessa.
Cosa ci mette Fini in questo partito? Qui, i dubbi, sono tanti. Lui si muove da incursore, spiazzando spesso i suoi amici e i suoi elettori. Va a sinistra e cerca di occupare spazi d’identità, ma si muove a casaccio, quasi da solo, senza rotta, senza mappa, senza futuro. Ha travasato An nel Pdl, ma in molti ancora si chiedono: con quale identità?
È questo il paradosso. Fini sogna un partito centrale, un laboratorio di idee e di politica, che indirizzi e disegni l’azione di governo. Qualcosa di rigido, che non si perda nel dopo elezioni. È un partito post berlusconiano, meno carismatico, meno di piazza, con un leader «giovane», ma vecchio stile. Un leader come lui.
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