Quando anche Di Pietro voleva una legge contro le intercettazioni

Da ministro di Prodi auspicava "sanzioni durissime" per chi avesse diffuso e pubblicato le conversazioni private dei politici

Quando anche Di Pietro  voleva una legge contro le intercettazioni

da Roma

Il tempo passa per tutti. E la politica italiana non è esattamente il regno della coerenza. Poi però, a sorprenderci, spunta qualcuno che mostra di soffrire più degli altri il cambio di stagione. Ad esempio Antonio Di Pietro, così come emerge da un’intervista rilasciata a Gente appena 14 mesi fa. Per carità, niente che scalfisca la sua militanza giustizialista, ma sull’uso delle intercettazioni - in particolare quelle che non c’entrano niente con le indagini - l’ex Pm non la pensava come ora e usava argomentazioni che oggi non stonerebbero nel comunicato ufficiale di Palazzo Chigi sulla rinuncia del premier a Matrix.
Forse sul Tonino nazionale pesava la carica di ministro; magari i venti grillini non lo avevano portato verso quel modo di fare opposizione, tutto invettive, che ieri ha denunciato il governatore della Puglia Nichi Vendola. Fatto sta che al settimanale, Di Pietro spiegò che lo strumento delle intercettazioni doveva essere difeso (e su questo fece una battaglia anche contro la sua maggioranza). Ma poi non fece sconti a chi - stiamo parlando dei tempi di Vallettopoli - aveva esagerato. «Ci si deve dare delle regole non riducendo il sistema delle intercettazioni, ma ponendo limiti all’invasione della sfera privata di ognuno di noi... Ci sono tanti casi di gossip puramente irrilevanti. È un magma indistinto da cui bisognerà estrarre i fatti penalmente rilevanti», spiegò alla giornalista. Ragionamento fine, che più volte hanno dipanato i giuristi interpellati in questi giorni dai giornali, ma che suona strano in bocca al leader di Italia dei Valori come lo conosciamo oggi.
Quello, tanto per intenderci, che difende la pubblicazione delle telefonate tra Saccà e il Cavaliere perché «offrono uno spaccato di questa classe dirigente italiana che ci fa vergognare e dice che non si devono pubblicare le intercettazioni».
Scorrendo la bella intervista si capisce però che, non molto tempo fa, lui di quella classe dirigente face parte a pieno titolo. Nel senso che anche a suo avviso le telefonate non andavano pubblicate. Arrivava a proporre il pugno di ferro contro chi le faceva uscire dalle aule di giustizia. Lamentava la mancanza di una «norma che preveda il divieto della pubblicazione e della informazione», quando riguarda la sfera privata dei personaggi coinvolti. Credo, diceva, che «si debba passare a un’autoregolamentazione delle categorie e che vadano stabilite norme più ferree e sanzioni più dure verso chi fa uscire la notizia». Bisognerà, aggiungeva, «prevedere sanzioni durissime per chi diffonde la notizia: l’avvocato, il cancelliere, l’imputato stesso, il giudice e poi mettere in pratica la sospensione di quei giornalisti o editori che diffondono la notizia». Roba che oggi suonerebbe eccessiva anche in bocca ai radicali più garantisti.
Ma il Di Pietro d’annata, non si fermava qui. E spiegava che non bisogna esagerare nemmeno quando di mezzo c’è la classe dirigente. I politici «non possono essere tutelati più dei singoli cittadini, anzi devono avere un comportamento irreprensibile. Questo non significa umiliare la loro vita oltre il limite del dovere d’informazione». Insomma, il privato è privato anche per i politici. Altro ragionamento complesso, dalle mille implicazioni giuspubblicistiche, che Di Pietro sembra aver smarrito nel viaggio dalla maggioranza all’opposizione. Così come un certo riguardo che l’allora ministro riservò alle showgirl coinvolte nelle intercettazioni di Henry Woodcock. Mentre spiegava che la sovraesposizione mediatica non fa bene alla lotta contro la corruzione, faceva l’esempio delle ragazze coinvolte, spesso «fanciulle coscienti e maggiorenni, che hanno deciso di fare del proprio corpo ciò che vogliono». Insomma, lasciatele stare.

Una sensibilità quasi femminista che stona decisamente con il Di Pietro versione 2.0, quello macho-trebbiatore dell’ormai famoso «magnaccia». Che era rivolto al premier, ma che, c’è da scommetterlo, alle «fanciulle» finite nelle intercettazioni non deve aver fatto troppo piacere.

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