Quando Genova congiurò contro il Papa

Quando Genova congiurò contro il Papa

È stato presentato mercoledì scorso nel Salone del Minor Consiglio a Plazzo Ducale il libro del giornalista caporedattore del Tg1 Mario Prignano «Urbano VI. Il Papa che non doveva essere eletto». Di seguito pubblichiamo un brano del volume, nella parte che riguarda proprio Genova.

I sei cardinali prigionieri si trovavano incatenati mani e piedi in cellette quanto mai anguste, ognuna protetta da doppi muri e priva di finestre. Per molti mesi, i familiari dei malcapitati ma anche rappresentanti degli ordini religiosi, predicatori come Matteo da Cracovia, signori e principi di ogni parte d’Italia, oltre naturalmente al doge Antoniotto Adorno, si prodigarono inutilmente per farli liberare. Una commovente preghiera di grazia giunse al papa anche da Pietro Gambacorta, signore di Pisa e grande amico di Caterina da Siena che grazie a lui nel 1376 aveva potuto aprire un convento in città, affidandone la guida alla figlia Tora. Tutto inutile.
Quando fu chiaro che da Urbano non sarebbe arrivato alcun gesto di clemenza, Pileo e Galeotto, i due cardinali venuti a Genova con il preciso obiettivo di salvare la vita dei loro confratelli, iniziarono a studiare un piano di evasione che prevedeva l’assalto al palazzo della Commenda. Avvenne una notte di giugno. Un manipolo di armati penetrò nella residenza pontificia contando su connivenze all’interno, ma, per un calcolo errato delle forze in campo, trovò una tale resistenza da parte delle guardie del papa che, senza nemmeno essere arrivato nelle vicinanze delle prigioni, fu costretto a retrocedere e scappare.
La reazione di Urbano fu immediata. Rinunciando a perseguire coloro che avevano condotto l’assalto, concentrò gli sforzi sui complici che avevano operato dall’interno, ordinando che venissero individuati e puniti senza pietà. Diversi curiali furono arrestati. Uno di essi, un canonico che in passato aveva servito il cardinale Mezzavacca, l’ispiratore della congiura di Nocera, confessò sotto tortura che del piano faceva parte anche l’avvelenamento del papa. Fece inoltre i nomi di altri complici che a loro volta confermarono l’esistenza di un piano anche per l’eliminazione del pontefice, oltre che per la liberazione dei cardinali reclusi. E alla fine spuntarono i nomi dei mandanti: Pileo da Prata e Galeotto di Pietramala.
Diversamente da quanto aveva fatto a Nocera, questa volta Urbano non ordinò subito l’arresto dei cardinali presunti congiurati. Alla consueta presenza di tutta la curia, di notabili locali, ambasciatori, rappresentanti del clero, vescovi e arcivescovi, rivolse però ai due porporati la pesantissima accusa di avere tramato per ucciderlo. Inutilmente Pileo e Galeotto protestarono la loro innocenza chiedendo che gli indizi a loro carico venissero esaminati dal doge Adorno: era già molto se, grazie alla protezione delle autorità cittadine, non erano ancora stati portati via in catene. Evidentemente avevano le ore contate.
Il giorno dopo, sfruttando la benevolenza dei genovesi, i due cardinali scapparono in direzione di Pavia dove trovarono rifugio sicuro grazie al signore di Milano Gian Galeazzo Visconti. Degno erede della doppiezza dello zio Bernabò, fino a quel momento Gian Galeazzo aveva mostrato grande compiacenza verso Urbano VI (che in occasione della posa della prima pietra del duomo di Milano, a marzo, gli aveva concesso numerosi privilegi) ma, fiutata l’aria, ora aveva preferito assecondare i suoi nemici. Su suggerimento di Pileo e Galeotto, inviò a Genova un’ambasceria per avanzare tre richieste al papa: rilasciare con effetto immediato e senza condizioni i cardinali prigionieri; riammettere nel sacro collegio quelli che si erano allontanati dalla curia (a parte i due appena fuggiti, Bartolomeo Mezzavacca, Poncello Orsini e Landolfo Maramaldo si tenevano ben lontani da Urbano pur non essendo passati con Clemente), operare per riunificare la Chiesa. Dal canto loro, i due fuggiaschi scrissero una accorata lettera agli anziani della città di Bologna invitandoli a prendere partito contro quel pontefice da cui dipendevano «tutti i mali della Chiesa» cominciando dallo scisma, causato «dall’irresponsabile atteggiamento verso i cardinali» e dalla «rottura con la regina Giovanna e poi con Carlo di Durazzo e la regina Margherita», avendo come unico intento quello di «elevare ai più alti onori il dissoluto nipote Francesco». Naturalmente i due cardinali ricordavano anche «l’inaudita crudeltà» mostrata da Urbano VI verso i porporati prigionieri, ai quali aveva estorto con la tortura «le più inverosimili confessioni».
Per dare il massimo della pubblicità alla sua rottura con Bartolomeo Prignano, con gesto clamoroso, Pileo da Prata bruciò nella piazza di Pavia il galero che lui gli aveva assegnato, quindi, avuta da Clemente VII l’assicurazione che gliene avrebbe concesso un altro, prese con decisione la strada di Avignone (da cui però sarebbe ripartito a fine 1389 per tornare all’obbedienza romana, meritandosi il nomignolo di cardinale «dei tre cappelli»).
Negli stessi mesi, mentre anche Galeotto meditava di rifugiarsi tra le braccia dell’antipapa, Urbano si prodigava per diffondere ai quattro venti la notizia della deposizione dei due cardinali, «a causa della loro empietà ed iniquità e dei gravi, enormi e detestabili eccessi da loro commessi». Si era ormai al settembre 1386. In luglio, l’insistenza di Riccardo II e quella dei benedettini d’Inghilterra avevano infine convinto il papa a graziare Adam Easton, che nella congiura di Nocera aveva avuto una parte tutto sommato marginale, riducendolo allo stato di semplice sacerdote e autorizzandolo a lasciare nottetempo Genova per recarsi oltre Manica.
Urbano aveva deciso di mantenere segreto quel gesto di clemenza, ma se anche l’avesse reso pubblico non sarebbe comunque riuscito ad allentare una tensione, tra lui e i genovesi, che ormai aveva raggiunto livelli intollerabili. Era tempo di lasciarsi anche la Liguria alle spalle. Prima, però, sui cardinali detenuti andava presa una decisione definitiva.
L’esecuzione dei cinque sventurati avvenne, nella massima segretezza, in una notte di dicembre. Nessuna comunicazione fu data alle autorità genovesi e neppure ai membri della curia pontificia, che solo alcuni giorni dopo, quando Urbano decise di partire per Lucca, si accorsero che del suo seguito non facevano più parte i cardinali in catene. Sulla morte cruenta che il papa aveva deciso di riservare loro fiorirono subito molte dicerie.
Nel suo diario, Dietrich, il segretario del pontefice, potè solo appuntare che «pochi giorni prima di lasciare Genova il papa ha dato ordine che i cardinali venissero ammazzati. Alcuni riferiscono che siano stati gettati in mare, altri che siano stati sepolti vivi in una fossa piena di calce nella stalla dei cavalli del papa e che poi i loro corpi siano stati bruciati e ridotti in cenere. Comunque stiano le cose, non sono stati più visti». Tra coloro che pretendevano di sapere come fossero morti Ludovico Donati, Giovanni da Amelia, Bartolomeo da Cogorno, Marino del Giudice e Gentile di Sangro vi fu anche chi giurò che erano stati sgozzati e i loro corpi essiccati e rinchiusi in certe valigie che, in preda a una specie di follia macabra, il papa avrebbe deciso di portarsi sempre appresso. Anni dopo, un chierico che era appartenuto al seguito di Urbano VI, Gobelino, avrebbe scritto in un libro di memorie di avere saputo, da una persona che era stata presente alla sepoltura, che i cardinali erano stati «sgozzati nel carcere durante la notte e di nascosto sepolti nella stalla dei cavalli».

Ma ci sarebbero voluti più di quattro secoli per scoprire casualmente, durante alcuni lavori di scavo sotto la Commenda di San Giovanni di Pré, cinque piccole lettighe sepolte sotto terra, con i resti di cinque scheletri. Una mano premurosa si era preoccupata di posare al fianco di ognuno il sigillo con le insegne cardinalizie.
da «Urbano VI. Il papa che non doveva essere eletto» Edizioni Marietti

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