Quando la giustizia è malata la pena non rieduca il reo

Paolo Canevelli*

Uomini di governo, magistrati, operatori penitenziari, e semplici cittadini. Tutti insieme per una giornata di riflessione sul tema della pena, per ribadire che la difesa di Abele, vittima innocente di una violenza spesso non comprensibile, ed il recupero di Caino, protagonista negativo di una realtà che tende alla sopraffazione dei soggetti più deboli, rappresentano due facce di una stessa medaglia. Promotori della iniziativa, svoltasi a Roma nella sede della Rai lo scorso 20 ottobre, un gruppo di magistrati di sorveglianza, riuniti in un coordinamento nazionale, convinti che l’esercizio della giurisdizione sulla pena costituisca un punto di vista essenziale per la comprensione del sistema nel suo complesso.
Qual è, dunque, la situazione della pena detentiva in Italia? Il sistema, tutto impostato sulla centralità della pena detentiva, sembra soffrire di una vera e propria crisi di identità, a causa di interventi normativi non coordinati e di prassi applicative non attente al quadro complessivo. La moltiplicazione dei benefici fruibili nel corso del processo in funzione di scelte processuali deflattive, il sempre più frequente ricorso a vie di fuga dalla pena detentiva, come la sospensione condizionale della pena, la mancata sottoposizione del condannato ad un periodo di prova, possono determinare una sensazione di impunità che rischia di favorire la prosecuzione della esperienza deviante e, quindi, la recidiva.
Effetti analoghi produce la eccessiva lunghezza dei tempi di definizione dei procedimenti penali e la quasi generalizzata ed automatica sospensione dell'esecuzione di condanne a pene detentive di media entità per chi, al momento del passaggio in giudicato della sentenza, si trovi in stato di libertà.
Il rigore della pena detentiva rischia così di abbattersi con immediatezza solo su chi non abbia potuto difendersi dal processo e nel processo ovvero non riesca a sfuggire all'etichettamento di persona socialmente pericolosa, producendo gravi forme di disuguaglianza.
La stessa struttura delle misure alternative alla detenzione, di competenza della magistratura di sorveglianza, incentrate sulla idea del trattamento rieducativo e sulle opportunità di reinserimento familiare, sociale e lavorativo, sembra produrre rilevanti difformità applicative, garantendo maggiori possibilità alle persone con risorse economiche e culturali più elevate e discriminando, di fatto, chi appartiene alle fasce più emarginate della società (stranieri irregolari, tossicodipendenti, persone affette da disturbi psichici). La dilatazione dei tempi di intervento della magistratura di sorveglianza determina, poi, ulteriori inconvenienti: gli interventi sociali possono rivelarsi inefficaci o poco produttivi e, l'individuo, privo di adeguate forme di controllo, può riprendere a commettere reati.
Come favorire, allora, processi di trasformazione delle persone condannate e rispettare il mandato costituzionale che vuole che la pena tenda al loro reinserimento sociale?
Il dibattito è, ormai, avviato. Non è ipotizzabile una soluzione preconfezionata che, da sola, sciolga tutti i nodi dell'attuale sistema.

La magistratura di sorveglianza sente il dovere di avanzare suggerimenti e proposte per la costruzione di un nuovo sistema sanzionatorio che si orienti verso un ampliamento del ventaglio delle pene principali, una riduzione degli effetti negativi di sospensioni della pena caratterizzate da automatismi, una concreta dimostrazione di interesse per la vittima del reato, il rafforzamento di un sistema di alternative al carcere, la dotazione di più adeguate risorse per il reinserimento dei condannati e l'accentuazione degli aspetti trattamentali e risocializzanti della vita detentiva.
*Magistrato di sorveglianza di Roma

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