Politica

Quando i bilanci falsi erano della Olivetti

Le verità di Shakespeare hanno 400 anni. Ma andrebbero ripassate spesso. Come quando nell’Amleto si legge che «puoi regalare a tutti le tue orecchie, non la tua voce; ascolta le opinioni di chiunque, non dire mai la tua». Specialmente quando diventa difficile restare coerenti. Così era inevitabile che Carlo De Benedetti, chiamato a tenere lezioni di etica e giornalismo proprio nella britannica Oxford, rischiasse di apparire in contraddizione con se stesso. Perché tante sono le vicende del finanziere che, negli anni, hanno fatto discutere. Una su tutte è quella dell’epilogo dell’Olivetti, che all’Ingegnere costò un crac industriale, un caso di falso in bilancio, una condanna per insider trading.
Siamo nell’estate del 1986. L’Olivetti è alla canna del gas. Negli ultimi tre anni ha accumulato perdite per 3mila miliardi di vecchie lire, che hanno portato a chiedere ai soci, nel settembre del ’95, la sottoscrizione di un aumento di capitale da 2.250 miliardi. I dipendenti sono già stati ridotti di circa un quarto, per quasi 10mila unità. Il 4 luglio l’Ingegnere si dimette da amministratore delegato, lasciando il posto a Francesco Caio (che guidava Omnitel, il gestore di telefonia mobile nato per fare concorrenza a Tim), ma tenendo la presidenza. A Caio il compito di presentare il bilancio dei primi sei mesi del ’96, successivi al super-aumento di capitale. L’idea di De Benedetti è mostrare, con la semestrale, che il risanamento è iniziato. E Caio, per studiare le carte fa arrivare dalla Rai un nuovo direttore finanziario, Renzo Francesconi, approdato a Ivrea il 31 luglio.
Ma dopo un agosto di lavoro, i due incontrano l’Ingegnere e gli prospettano una sola cosa: la semestrale è disastrosa, perdite miliardarie, debiti fuori controllo, bisogna andare dalle banche e chiedere un salvataggio del gruppo. Apriti cielo. De Benedetti non ne vuole sapere: «Non mi sparo in un piede. Non vado a genuflettermi in Mediobanca», avrebbe detto. La semestrale, che avrebbe dovuto essere approvata dal consiglio del 26 agosto, viene rinviata. Il titolo, in Borsa, vacilla. Caio insiste e mette per iscritto le sue richieste: uscire dai pc, convertire l’Olivetti alle telecomunicazioni e concordare con Mediobanca il salvataggio. L’Ingegnere risponde a muso duro: «Quella per me è una lettera di dimissioni». Dal muro contro muro si esce il 4 settembre, con l’approvazione di una semestrale pesante (rosso di 440 miliardi), ma probabilmente edulcorata. Ma anche con l’uscita definitiva di De Benedetti, che lascia la presidenza ad Antonio Tesone. Ne segue però un colpo di scena: Francesconi si dimette, facendo intendere che la semestrale non rende in modo realistico la situazione dell’Olivetti. In altre parole: è un bilancio falso. «Sul piano strategico - dichiarò Francesconi - si possono fare mediazioni. Sui numeri e la cassa, no». Titolo a picco.
Immediato l’intervento della Consob. Mentre la Procura di Ivrea apre un’inchiesta per falso in bilancio. Pure il Parlamento si muove, con un’indagine conoscitiva. Nel giro di pochi giorni gli indagati, a Ivrea, diventano sia Caio, sia De Benedetti, sia Tesone. Il titolo (che nel ’95 era stato a 1.300 lire) crolla fino a quota 500. Il 20 settembre Caio cede e si dimette. Arriva Roberto Colaninno, manager che guidava la Sogefi (società del gruppo De Benedetti). Ma non finisce lì: passa un altro mese e la Procura di Torino apre un’inchiesta sull’Ingegnere per il reato penale di insider trading. Nel mirino ci sono operazioni sospette per quantità e tempismo, effettuate dalla finanziaria torinese Intermobiliare, da sempre considerata vicina a De Benedetti. In sintesi, qualcuno avrebbe venduto allo scoperto titoli Olivetti nei giorni precedenti l’uscita della semestrale, per poi riacquistarli dopo l’uscita dei numeri, a prezzi sensibilmente più bassi, con lauto profitto. L’Ingegnere patteggia la condanna e paga una multa di 50 milioni.
Anche la partita del falso in bilancio si conclude con una condanna in patteggiamento. Ma la sentenza viene revocata nel 2003, in quanto il fatto non è più previsto dalla legge come reato grazie al Decreto legislativo del 2002 che ha modificato il reato di falso in bilancio.

Proprio una di quelle leggi definite «ad personam» dai giornali dello stesso De Benedetti.

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