I tifosi più accesi del governo tecnico sono Fini e Casini. Il presidente della Camera ha spianato col rullo l’iter ai decreti montiani ed è un elogio continuo del bocconiano. In un ragionamento dei suoi ha detto: appoggiando il governo tecnico, la politica, lungi dall’aver fallito, ha dimostrato sapienza; se si fosse invece tornati alle urne, «allora sì avremmo avuto il fallimento della politica». Poi, ha auspicato che i tecnici restino fino al 2013 e si è stropicciato felice le mani. Così, sotto Natale abbiamo visto Fini contento come una pasqua per il governo non politico.
Idem, il leader Udc. A nessuno è sfuggito che Pierferdy si inorgoglisce di Monti come fosse un suo zio intelligente. Dalla gioia che gli sprizza dai pori si direbbe che la fulminea sostituzione del Cav l’abbia pensata lui con Napolitano e che SuperMario sia frutto di un’intuizione comune. Vai a sapere se hanno davvero tramato insieme, ma è certo che senza Casini, il Quirinale non avrebbe realizzato il piano. Riandando a un mese e mezzo fa, ricorderete che il Cav si è arreso solo quando è stato abbandonato da alcuni fedelissimi. Sì, certo, c’erano lo spread e la canea che gli rimproverava di averlo causato. Ma a metterlo ko è stato il buco di otto onorevoli, quasi tutti, incantati dalle sirene Udc. Casini orchestrava il fuggi fuggi e il suo socio, Paolino Pomicino, suonava il piffero, assicurando agli incerti un futuro nel Terzo Polo. Così è svaporato il Cav, sostituito dal governo non eletto di questi perfetti sconosciuti - tecnici e professori - che mai avremmo voluto tra i piedi e che invece ci stanno cambiando la vita. Onore al merito di Casini e del presidente Fini, prontamente allineato al sodale, dimentichi l’uno e l’altro del loro passato.
Quella per i tecnici salvatori di legislature è infatti una passione recente dei due giganti. Un tempo, infatti, respingevano con sdegno i governi non politici a costo di farci votare anzitempo. Mi riferisco a una lontana vicenda, il tentativo di governo Maccanico, che dice tutto sulla coerenza e il midollo spinale della coppia.
Era il 1996 e il governo Dini, nato per ripiego dopo il ribaltone di Bossi che affossò il Berlusconi I, boccheggiava. O si andava a elezioni anticipate sotto pessimi auspici per il centrodestra (di cui Fini e Casini erano la polpa) o si trovava una via d’uscita. Nacque così l’idea di un governo di tregua che faceva comodo a tutti: a Scalfaro che evitava di chiudere la legislatura in anticipo per la seconda volta dopo il 1992; al capo del Pd, D’Alema, e al Cav uniti nella strizza di perdere le elezioni. Ad Antonio Maccanico fu affidato il tentativo di un governo per uscire dall’emergenza che, se oggi è economica, allora era istituzionale (riforma dello Stato).
Maccanico era una gran volpe di Palazzo, ex comunista, poi repubblicano, che se solo avesse trovato un buco ci si sarebbe fiondato di corsa facendo il governo. Trovò di più: l’assenso di tutti. E un solo ostacolo: Fini e, più defilato, Casini. Ma talmente tignosi, l’uno e l’altro, che dopo due settimane, gettò la spugna. Le cose andarono così. Maccanico presentò un programma di trasformazione della Repubblica da parlamentare in presidenziale. Sistema di riferimento quello francese, ma senza dirlo esplicitamente per non irrigidire il Pds. La vaghezza della bozza piacque tanto a D’Alema che al Cav. Solo Fini fece il pignolo, pitipì, pitipì, obiettando che o si diceva chiaro che il modello era Chirac o niente. Ci si incagliò per giorni con alti e bassi da bollettino medico. Maccanico la mattina: «Riscontro larga adesione». La sera, dopo essere stato tramortito da Fini: «Non ci sono le condizioni». Così fino allo sfinimento. Il Cav commentava serafico: «Fini ha questa passione per il dettaglio che io non ho. Gli portano l’ultima dichiarazione e lui si emoziona». Maccanico andò incontro a Gianfry fino allo spasimo. Finché - e qui arriviamo dove volevo arrivare - Fini sfoderò un estremo cavillo: un governo tecnico umilia la politica e dà voce ai potentati economici. Poiché Maccanico, diversamente da Monti, non era un tecnico si attaccò a due episodi. Una visita dell’industriale De Benedetti al presidente incaricato e il sostegno a Maccanico di Lorenzo Necci, patron delle Ferrovie. Pensate come era sensibile allora, quello che oggi appoggia un intero reggimento di banchieri e prestanome di Goldman & Sachs! Casini fece propria l’obiezione, cominciando anche lui, non ancora imparentato col costruttore Caltagirone, a lanciare alti lai sulle insidie dei poteri forti. Così - per la strenua resistenza anti tecnici dell’ineffabile coppia - il tentativo andò a ramengo e con lui la legislatura. Anni dopo, Maccanico rivelò: «Fini aveva un’illusione: voleva le elezioni perché si pensava più forte di Berlusconi». Più o meno lo stesso sperava Pierferdy.
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