Quando i pakistani «facevano gli indiani»

I pachistani hanno salvato la pelle a Osama Bin Laden o «coperto» la sua latitanza ultradecennale, dal lontano 1998. Presidenti, premier, capi dei servizi segreti di Islamabad hanno sempre detto che non sapevano dove fosse il capo di Al Qaida dandolo talvolta per morto, nascosto in Afghanistan o da un’altra parte, non certo in Pakistan. Dopo l’eliminazione di Bin Laden ad Abbottabad, sede della West Point pachistana a due ore di macchina dalla capitale, i nodi vengono al pettine.
A sei giorni dal blitz americano si sono riuniti ieri il presidente, Asif Ali Zardari, il primo ministro Yusuf Raza Gillani e il capo di Stato Maggiore delle forze armate di Islamabad, generale Ashfaq Parvez Kayani. Tutti e tre avevano sempre smentito seccamente la presenza di Bin Laden in Pakistan.
L’aspetto più inquietante è che i vertici del paese forse erano veramente all’oscuro di dove fosse il fondatore di Al Qaida, ma lo sapevano una cerchia ristretta di funzionari dei servizi segreti che hanno avuto a che fare con Bin Laden per anni. Gli Stati Uniti hanno chiesto con forza l’identità di queste barbe finte colluse con lo sceicco del terrore. «È difficile credere che il capo di stato maggiore, Kayani e il direttore generale dell’Isi (la potente intelligence di Islamabad nda), Ahmad Shuja Pasha, sapessero dove si trovava Bin Laden» - ha affermato ieri al New York Times una fonte dell’amministrazione Usa - «ma non ci sorprenderebbe se qualcuno vicino a Pasha lo avesse saputo».
Il Pakistan ha tirato fuori dai guai Osama fin dal 1998, subito dopo gli attentati firmati Al Qaida contro le ambasciate americane in Kenya e Tanzania. L’allora presidente, Bill Clinton, ordinò di lanciare una raffica di missili contro quattro basi di addestramento degli uomini di Bin Laden in Afghanistan. I missili arrivavano da portaerei e sommergibili americani nell’Oceano Indiano e dovevano passare per lo spazio aereo pachistano. Quando i missili partirono qualcuno dei servizi di Islamabad telefonò sul satellitare dello sceicco del terrore, che si mise velocemente in salvo.
Nel 2001, dopo il crollo del regime talebano, Bin Laden si rifugiò nelle grotte di Tora Bora ad un passo dalle zone tribali pachistane. Gli americani pur bombardandolo non chiusero il cerchio ed i pachistani si guardarono bene di aspettarlo oltre frontiera, unica via di fuga.
Amal Ahmed al Sadah, la giovane moglie del terrorista, ferita e catturata nel blitz di Abbottabad avrebbe confessato ai pachistani, che la tengono in custodia, una notizia clamorosa. Fin dal 2003 Osama bin Laden e famiglia vivevano nel villaggio di Chak Shah Mohammad, vicino alla città di Haripur, lungo l’autostrada che porta ad Abbottabad. Due anni dopo si trasferirono nel compound dove sono piombati i corpi speciali americani. In una città dove la sicurezza antiterrorismo è ai massimi livelli per la presenza di una delle più importanti accademie militari del paese. Il mese scorso lo stesso generale Kayani si era recato in visita alla West Point pachistana, a un chilometro dal rifugio di Bin Laden, annunciando: «Abbiamo battuto il terrorismo, ma a Washington sono scettici».
Guarda caso Kayani arriva dal comando dell’Isi, dove si sospetta che il «Direttorato», specializzato nei rapporti con gli estremisti islamici, avesse contatti con Osama. Nel 2009 Kayani, durante una conferenza stampa con il primo ministro inglese, Gordon Brown, ribadiva: «Non penso che Bin Laden sia in Pakistan».
L’ex uomo forte e presidente pachistano, Pervez Musharraf, al potere grazie a un golpe dal 1999 al 2008, sosteneva che il capo di Al Qaida fosse «morto, perché era malato ai reni. Altrimenti si trova in Afghanistan». L’ex ministro dell’Interno, Rehman Malik, per gran parte degli anni della latitanza in Pakistan della primula rossa del terrore, sentenziava: «Smentisco categoricamente la presenza di Osama bin Laden, il suo vice Ayman al Zawahiri e mullah Omar (il capo dei talebani nda) in qualsiasi parte del nostro paese».
Anche il premier in carica ha sempre smentito che il capo di Al Qaida si rifugiasse in Pakistan. Il presidente Zardari, nel 2009, affermava candidamente sulla sorte del super ricercato: «La nostra intelligence pensa che non esista più, che sia morto.

In ogni caso non c’è traccia di lui». Il suo portavoce, Farhatullah Babar, rincarava la dose garantendo che «se qualsiasi ufficiale sapesse dove si trova, Osama Bin Laden non sarebbe più un uomo libero».
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