Alberto Pasolini Zanelli
Fra le tante frasi, definizioni, slogan sbocciati sulle macerie fumanti di Manhattan subito dopo la strage e lo sfregio dell11 settembre 2001 una ebbe presa immediata e ancora la mantiene: «È cambiato il mondo». In una visione storica profonda e lontana potrebbe anche non essere esatto, se non altro perché il mondo cambia sempre e dunque non cambia mai; ma nel linguaggio della cronaca, della politica, delle emozioni è difficile contestarlo anche quattro anni dopo. E non soltanto né prevalentemente a causa delle incessanti commemorazioni, di cui quella odierna si preannuncia, per volontà di George Bush, particolarmente solenne. Le lacerazioni al tessuto dei rapporti internazionali e, quel che è forse ancora più importante, a quello della vita quotidiana in praticamente tutti i Paesi della Terra non si sono certo rimarginate. Non hanno neanche cominciato a diventare ricordo. E non potranno fino a che saranno in corso le guerre che da quella strage sono nate o almeno derivate (e che vi hanno condotto). Non cè soltanto lIrak. Si combatte tuttora anche in Afghanistan, teatro della operazione militare di gran lunga meglio riuscita fra le due principali condotte dagli Stati Uniti. A Kabul Bush ha colto subito un successo grazie non soltanto alla accorta pianificazione militare ma anche a una oculata conduzione politica, soprattutto sul piano dei rapporti internazionali. A volte tendiamo a dimenticarcene, ma fra quelle montagne si è svolta una guerra come tutte dovrebbero essere nella strategia del Pentagono e della Casa Bianca: un blitz prevalentemente aereo, con largo spazio ai «missili intelligenti» e, soprattutto, una partecipazione attiva, di prima linea di formazioni armate indigene.
Ciò non è accaduto invece nel luogo dove gli americani meno se lo attendevano: nel paesaggio piatto della Mesopotamia. I progressi politici ci sono anche in Irak, ma in una perdurante incertezza causata dal martellamento incessante della guerriglia e delle azioni terroristiche, apparentemente inesauribili e comunque molto più intense e durature di qualsiasi previsione. La sorpresa consiste anche in questo: che il regime di Saddam Hussein, considerato più fragile perché basato sulla pura violenza del potere, ha rivelato o mostrato radici più tenaci di quello integralista di Kabul. Un contrasto che rivela un paradosso: il «binladenismo» è crollato nella sua roccaforte ma ha conseguito un successo indiretto dove praticamente non esisteva. Il bilancio complessivo si presta a valutazioni contrastanti: nello scontro diretto Al Qaida ha subito colpi durissimi che ne hanno ferito e limitato le strutture portanti. Non lo si vede solo dalla situazione afghana, ma anche, e conta forse di più, dalla mancanza delle «insurrezioni» di massa che Bin Laden si aspettava nei Paesi più fondamentalisti. In compenso il terrorismo si è dilatato attraverso una diaspora parzialmente di «dilettanti», che lo rendono per un certo aspetto più pericoloso ancora. Due soli esempi: la serie di attentati dellanno scorso a Madrid era stata progettata con mezzi distruttivi di una tale potenza che avrebbero potuto causare un numero di vittime ancora maggiore delleccidio delle Torri Gemelle a New York. Per converso lattacco a Londra del luglio scorso è stato compiuto con pochi mezzi e sostanze «povere» come lacetone.
Fra le cose che hanno «cambiato il mondo» negli ultimi quattro anni cè anche la non del tutto imprevista diffusione della «guerra dei privati». Allestremo opposto cè lemergere di una nuova volontà da parte della Superpotenza sfidata e offesa l11 settembre 2001. Molte delle innovazioni della «dottrina Bush» appaiono irrevocabili. LAmerica ha scelto di scendere in campo con tutta la sua forza, uscendo dai residui equilibri della Guerra Fredda e della sua vittoria in quel conflitto, ed è molto improbabile che vi rientri. La Nato è cambiata per sempre, lOnu è in condizioni precarie.
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