Quando l’ebreo è nemico dell’ebraismo

«Schierarsi con Israele può costare molto oggi, specie nelle università, nel mondo dell’editoria e in politica. Socialmente, spesso costa l’isolamento e l’ostracismo, specie nei circoli intellettuali». Così Emanuele Ottolenghi, già giovane professore all’Università di Oxford e collaboratore di numerosi giornali italiani, denuncia nel suo nuovo libro Autodafè. L’Europa, gli ebrei e l’antisemitismo (Lindau, pagina 382, euro 24) le nuove forme che l’antisionismo sta assumendo in Europa. Ottolenghi formula uno spietato e documentato atto d’accusa contro gli intellettuali ebrei che prendono posizione contro Israele per farsi accettare dal resto dell’intellighentia. «Denunciare Israele - scrive - è parte dell’esame di ingresso nei circoli intellettuali della sinistra». Con questo loro atteggiamento, questi intellettuali diventano automaticamente «ebrei buoni», perché con il loro mea culpa forniscono il perfetto alibi all’antisemitismo degli altri.
Ma il libro è molto più della denuncia di questo tradimento: fornisce l’analisi più aggiornata e approfondita del moderno antisemitismo europeo. L’autore riconosce che il fenomeno è molto diverso da quello degli anni Trenta e Quaranta, perché oggi nessuno in Occidente vuole più sterminare gli ebrei e il nuovo antisemitismo offre agli ebrei una via d’uscita per evitare la discriminazione: l’equivalente odierno di quello che, un tempo, erano la conversione e l’assimilazione, è la denuncia di Israele, la critica serrata di ogni iniziativa del governo di Gerusalemme, l’accettazione del principio che lo Stato ebraico deve pagare un prezzo per risolvere il conflitto mediorientale.
Quanti e chi sono gli antisemiti? Sulla scorta di sondaggi e rapporti, Ottolenghi arriva alla conclusione che esiste in tutta Europa un fondo di pregiudizio antiebraico che coinvolge in media tra il 10 e il 20 per cento della popolazione. Si tratta, in genere, di un fenomeno a bassa aggressività, ma che assume forme più violente in coincidenza di eventi di cui si può incolpare lo Stato ebraico. In questo è spesso decisivo il ruolo dei media, anche italiani. In un capitolo intitolato «La demonizzazione di Israele», l’autore fa un’analisi spietata di tre casi in cui la stampa internazionale (prevalentemente di sinistra, ma non solo) ha travisato i fatti per addossare allo Stato ebraico responsabilità che in realtà non aveva. Ha definito la «passeggiata» di Ariel Sharon sulla spianata delle moschee nel 2000 come la sola causa della seconda Intifada, quando è ormai dimostrato che, al massimo, fu il fattore scatenante di una rivolta preparata da tempo. Ha presentato acriticamente la battaglia di Jenin, in cui Tsahal ha snidato casa per casa gruppi di terroristi palestinesi dal campo profughi, come una specie di «massacro degli innocenti», poi clamorosamente smentito dalle successive inchieste. Ha, infine, istigato l’opinione pubblica a considerare la barriera eretta per proteggere il territorio israeliano dagli attentati suicidi solo come uno strumento di oppressione dei palestinesi.


Quello di Ottolenghi è un libro devastante, che indurrà a giudicare con nuovi criteri certe prese di posizione antiisraeliane da parte di eminenti intellettuali ebrei in cerca di consensi; un libro, infine, che dimostra, se ancora ce n’era bisogno, quanti pregiudizi anche inconsci pervadono la nostra valutazione del conflitto israeliano-palestinese, che non è affatto la causa di tutti i mali del Medio Oriente.

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