Quando l’ecologia non era il cimitero degli elefanti

Ripubblicato in Italia "Le radici del cielo" il primo romanzo in cui si parlò di difesa della natura e non dalla natura

Quando l’ecologia non era il cimitero degli elefanti

Nel 1956, l’anno in cui vinse il Goncourt con Les racines du ciel (ora riproposto meritoriamente da Neri Pozza, Le radici del cielo, traduzione di Ettore Capriolo,pagg. 487,euro 14) Romain Gary fu a un passo dal perdere la vita. Era in missione diplomatica in Bolivia, sull’isola del Sole che sta in mezzo al lago Titicaca. Il Paese era politicamente instabile, i minatori boliviani giravano con candelotti di dinamite appesi alla cintura dei pantaloni, la sera c’era il coprifuoco, di giorno un caldo soffocante. Durante una sosta, Gary bevve a canna da una bottiglia di birra, il vetro si spaccò e lui ne inghiottì una lama lunga tre centimetri, perforazione intestinale garantita. Sull’isola non c’erano ospedali né telefoni, il tempo di riattraversare il lago avrebbe visto le strade chiuse e i posti di blocco... «Dicono ci sia una strega poco lontano da qui, sembra faccia guarigioni miracolose» azzardò uno dei boliviani che lo accompagnava. «Vada per la strega» rispose Gary, che si era seduto per terra aspettando i primi dolori. La strega era talmente brutta e sporca che gli ispirò fiducia: «Doveva essere per forza in buoni rapporti di parentela con il Destino»... Il sortilegio consistette in due chili di mollica e un litro d’olio ingurgitati. La notte passò senza dolori e il giorno successivo, all’ospedale di La Paz, Gary evacuò la scheggia di vetro trasformata nel ripieno di una oleosa quiche di pane. «Per statuto il Goncourt non può essere assegnato alla memoria» ironizzò anni dopo. Morire ci stava pure, insomma, ma vedersi privato anche del premio era un po’ troppo...

La vita di Gary fu sempre questo misto di avventura e fatalismo, esotismo e ufficialità, tragedia a farsa. Era in forza al Quai d’Orsay, ma faceva il regista cinematografico, frequentava Hollywood, sposava attrici, scriveva romanzi dove i grandi temi si mischiavano ai destini individuali, ma c’era sempre un’alta coscienza di sé, del proprio Paese, della propria dignità. Si prendeva molto sul serio Gary, e gli sembrava che gli altri, le istituzioni, la politica, la critica, non facessero altrettanto. Non era vero, è che però non gli sembrava mai sufficiente.

Sotto questo aspetto Le radici del cielo è emblematico, perché c’è il Gary al suo meglio ma anche al suo peggio, l’intellettuale che prevedeva il futuro ma emotivamente non sapeva staccarsi dal proprio passato, l’affabulatore e il retore, il sapiente costruttore di macchine narrative e il suo indisciplinato sabotatore per eccesso, l’uomo degli stati d’eccezione costretto a fare i conti con la quotidianità e che pensava di risolvere il contrasto facendo finta di non vederlo. Nel tempo, questo libro ha assunto la dignità di «primo romanzo ecologista», il che suona ancor più significativo se si pensa che negli anni Cinquanta il termine ecologia era sconosciuto e la difesa della natura, considerata un controsenso. Ci si difendeva dalla natura, la si regolava e la si usava, se ne mettevano le risorse a disposizione di una umanità che grazie al progresso tecnico e scientifico le avrebbe impiegate al meglio... Nel delineare il personaggio di Morel, l’uomo che in Africa si batteva per salvare gli elefanti dallo sterminio che li minacciava, Gary per la verità era andato oltre, perché l’ambiente di cui si faceva difensore era anche e soprattutto l’ambiente umano nel suo senso più largo: rispetto per la persona, libertà, generosità. E tuttavia, gli elefanti di Le radici del cielo non erano per nulla allegorici, ma, più semplicemente, come scriverà più tardi, «la più grande quantità di vita, e dunque di sofferenza e di felicità che ancora esiste sulla terra. Sono gli ultimi individui, ma lo sono veramente, con tutta la loro malagrazia, con tutta la libertà e lo spazio di cui hanno bisogno per muoversi e per sopravvivere».

Scritto quando la decolonizzazione è ancora un work in progress, in marcia, ma non si sa per dove né per quanto, il romanzo si fa carico delle contraddizioni di un’epoca in cui gli imperi crollano, le guerre di liberazione esplodono e le nazioni europee uscite vittoriose dalla Seconda guerra mondiale si rendono conto di aver perso il ruolo di grande potenza che sempre era stato il loro. È l’anno di Suez e del ritiro delle truppe anglo-francesi, dell’indipendenza del Sudan, della Tunisia e del Marocco, dei movimenti indipendentisti in Angola, Guinea, Capo verde... C’è già stata Dien Bien Phu e la Francia non è più in Indocina, nel giro di poco ci sarà la «battaglia di Algeri» e la Francia non sarà più in Algeria... In Le radici del cielo, Gary coglie, in anticipo sul suo tempo, il pericolo che si nasconde dietro una libertà del continente nero perseguita sul modello occidentale: «Un’Africa totalitaria, una tirannia talmente crudele che il colonialismo sembrerà acqua di rose, la definitiva conquista dell’Africa a opera dell’Occidente. Sono le nostre idee, i nostri feticci, i nostri tabù, le nostre convinzioni, il nostro virus nazionalista, tutti i nostri veleni, insomma, che voi cercate di inoculare nel sangue dell’Africa... Noi non abbiamo osato andare fino in fondo, ma voi lo farete in vece nostra».

Allo stesso modo, però, è consapevole che la difesa di una specificità africana, le tradizioni, i grandi spazi, la simbiosi fra natura e cultura, suonano falsi a petto di nuove realtà in movimento. «Forse, quando avrà la pancia piena, l’africano si interesserà anche lui al lato estetico dell’elefante e potrà abbandonarsi a piacevoli meditazioni sulla bellezza della natura». Il «bello», il «nobile», il «fraterno» sono idee «da uomo sazio», «nozioni vaghe e crepuscolari»...
Le contraddizioni di un’epoca sono anche le contraddizioni del Gary uomo prima che scrittore. Come portavoce della Francia all’Onu nei primi anni Cinquanta, è il difensore della giustezza della guerra d’Indocina, il sostenitore dell’impero coloniale nel Nord Africa... È l’avvocato di una causa a cui non crede, ma che difende con lealtà sino alla fine... Il suo modello resta de Gaulle, il de Gaulle del ’40 e di cui è stato al fianco, il de Gaulle che nel decennio dei Cinquanta è però impegnato in una lunga traversata nel deserto dell’opposizione... Nelle Radici del cielo, questa presenza-assenza è un altro dei leitmotiv romanzeschi che caricano il libro all’inverosimile di caratteri, divagazioni religiose, dispute ideologiche. È una sorta di figura messianica che incarna l’umanità come un tempo aveva incarnato la nazione. Il difensore degli elefanti Morel è in fondo «un gollista in ritardo», votato «quasi a un destino esemplare... E se questo lo delude, prova la sensazione di un’assurda anomalia, imputabile agli errori degli uomini, non al genio della specie... Allora si arrabbia e cerca di risvegliare negli uomini un’eco di generosità e di dignità, un certo rispetto della natura... ».


Ancora e sempre, il passato per Gary è più forte del presente, il tempo glorioso delle scelte «giuste» più appagante del tempo senza gloria di quelle pragmatiche... Solo che niente è più come prima. Non lo è la Francia, non lo è de Gaulle e, purtroppo per lui, non lo è Gary.

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