Cultura e Spettacoli

Quando l’isola emerse dal caos e sbocciò l’anima del Giappone

Fascino irriverente del «Kojiki», il più antico libro della letteratura giapponese, tra mito e magia

È il libro più antico della letteratura giapponese, ma ha vissuto la sua grande stagione di gloria tra il 1889 e la fine della seconda guerra mondiale. Quell’anno di fine Ottocento, infatti, è sancita per legge l’ascendenza divina della dinastia imperiale: il mito si fece sacro, e con esso anche il libro che ne narrava la storia. Il Kojiki per qualche decennio ha avuto in sorte di non poter essere oggetto di analisi scientifica: sezionarlo sarebbe stato un delitto di lesa maestà. Se lo si legge oggi, pubblicato da Marsilio con la cura e la traduzione di Paolo Villani (pagg. 172, euro 12), è facile capire perché.
Il Giappone prebellico era un paese in precario equilibrio tra modernizzazione e conservazione della propria identità. Proteggere il racconto delle origini della patria era forse un modo di preservarla dall’ondata desacralizzante del mondo moderno. Stando alla tradizione, il Kojiki è stato completato nel 712 dopo Cristo. Fu un nobile alla corte di Tenmu, Yasumaro, a scriverlo, raccontandovi la storia del Giappone e dei suoi eroi così come lui la conosceva, o forse come desideravano fosse ricordata i più alti ranghi del potere imperiale. Una lunga vicenda sospesa tra fatti e fantasia, a partire dall’emersione delle terre dell’isola dal caos primordiale fino alla storia della regina Suiko, al potere dal 592 al 628. Yasumaro intesse una vicenda di surreale bellezza, in cui il potere temporale, le divinità e i miti si intrecciano in un continuo scambio di ruoli. Proprio in questo sta la forza della sua epica condita di cosmogonia, in cui è narrata l’identità dell’unico paese realmente moderno a non aver abdicato del tutto alla parte pagana della sua cultura.
Nel Kojiki leggiamo il mito di Izanami e Izanaki, la maestosa coppia divina che amandosi ha dato origine a tutte le cose: le terre e i fiumi, i monti, i campi, gli esseri sacri e i principi del sangue. Poi, senza soluzione di continuità, entra in scena la storia vera, con i drammi dei suoi protagonisti, gli intrighi di palazzo, le campagne militari e le lotte per la successione al trono. Alle spalle di vicende documentate e più spesso magiche, c’è il racconto dell’anima shintoista del Giappone, quella che sente la natura con pagana empatia per gli esseri sovrannaturali nascosti tra le sue pieghe.
Oggi il Kojiki è studiato con il metro dell’antropologia, per capire qualcosa di più dei giapponesi che vissero prima dell’incontro con la civiltà cinese e il buddhismo. Prima che prendesse forma la sua identità «marziale», più recente, nata con il periodo feudale e i samurai. Non mancano le sorprese in questa lettura piacevole, mai ingabbiata da rigidità stilistiche troppo accentuate. Vi si scopre che l’antico mondo aristocratico non era affatto misogino, le donne vi giocavano ruoli nient’affatto secondari. Per il resto, il libro è un intrigante miscuglio di ingenuità linguistiche e i primi cenni di un’eleganza più matura, un’opera dalla struttura composta in cui trovano spazio canoni espressivi austeri e tradizioni orali cantate.

Un classico dal gusto acerbo e un po’ irriverente, che mostra intatto il suo fascino nonostante i tredici secoli di età.

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