Quando l'arbitro gioca per una squadra

In principio fu Scalfaro, accusato di aver "pilotato" il ribaltone anti Berlusconi. La sovranità del popolo contro quella parlamentare causa molti degli scontri

Come sarebbe andata a finire, in fondo, lo si poteva intuire già dall’inizio. Non questo inizio, e cioè non il settennato di Giorgio Napolitano. Ma quello, di inizio, quel 1994 che, volenti o nolenti i protagonisti della storia politica italiana, quella storia avrebbe cambiato. È da allora che si ripete lo scontro. Da una parte i presidenti della Repubblica, prima Oscar Luigi Scalfaro, poi Carlo Azeglio Ciampi, oggi Giorgio Napolitano. Dall’altra parte Silvio Berlusconi, non importa se in veste di premier o di leader dell’opposizione. Temi diversi, stesso filo conduttore: il fastidio. Innegabile il suo, di fastidio, quello del Cav, per un paese che non fa mistero di considerare obsoleto con l’aggravante di essere gattopardesco e di voler ribaltare con quella «rivoluzione liberale» che non smette di evocare, una riforma su tutte, il presidenzialismo. Ed evidente il fastidio degli inquilini del Colle, per quello che continuano a considerare un corpo estraneo alla politica, peggio, l’innovatore che ha costretto a guardare in faccia una Costituzione obsoleta in un Paese che ormai e sempre di più alle urne ci va per votare un leader, e non semplicemente una maggioranza che lo scelga.
Fu chiaro dal principio, infatti. Era il 1994, a dicembre il ribaltone di Umberto Bossi rovesciava dopo soli sei mesi il primo governo Berlusconi. Scalfaro finì nel mirino del centrodestra. La defezione leghista fu letta come frutto delle manovre del Quirinale, che avrebbe ricevuto informalmente notizia da Francesco Saverio Borrelli dell’imminente invio dell’avviso di garanzia ricevuto a Napoli dal premier. La gestione della crisi non sopì i sospetti. Invece di sciogliere le Camere dopo le dimissioni del governo, come con insistenza chiedeva Berlusconi, Scalfaro tentò con successo di formare un nuovo governo, affidandolo a Lamberto Dini. E lo fece invocando il dettame costituzionale per cui, una volta eletto dal popolo sovrano, la sovranità è esercitata dal Parlamento. E sta proprio qui uno dei motivi del perenne scornarsi, la sovranità di un popolo che non vota più solo un parlamento, ma un premier, e insomma la costituzione formale rispetto a quella materiale.
Non se ne esce e quindi il braccio di ferro peggiora. Se le critiche a Scalfaro furono forse le più violente, l’accusa di non essere arbitri, ma giocatori, è stata rivolta con veemenza anche ai suoi successori, in un crescendo che ha portato Berlusconi, meno di un anno fa, a puntare il dito così: «Il capo dello Stato sapete voi da che parte sta. Abbiamo giudici della Corte Costituzionale eletti da tre capi dello Stato di sinistra che fanno della Corte costituzionale non un organo di garanzia ma politico». Era l’ottobre 2009, la Consulta aveva appena respinto il lodo Alfano. Il Colle reagì difendendo la propria imparzialità e quella dei giudici, ma poco tempo dopo fu costretto a smentirli, firmando il Lodo. Era già successo che il Cavaliere si lasciasse andare a uno sfogo pubblico, correva l’anno 2008, era il primo aprile ma non c’era da scherzare: «Sappiamo che il consiglio dei ministri non potrà approvare nulla che non debba passare sotto le forche caudine di un capo dello Stato che sta dall’altra parte, mi ricordo di Ciampi...».
Quanti ricordi in effetti, di Ciampi. La legge elettorale che, accusò il premier, «fu modificata su indicazione del Quirinale» con quella ripartizione del premio di maggioranza regionale anziché nazionale che le fruttò l’appellativo di «legge porcata» da parte del suo stesso autore, il ministro Roberto Calderoli. La riforma Gasparri del sistema radiotelevisivo, era il 2003 e Ciampi non si limitò al rinvio tecnico che spetta al capo dello Stato, ma accompagnò la bocciatura con una lettera alle Camere nella quale di fatto chiedeva non semplici aggiustamenti, ma la modifica dell’impianto stesso della legge, con una «nuova deliberazione». Era la quinta legge, quella, che Ciampi bocciava. La sesta fu, un anno dopo, la riforma della Giustizia. In tutto, furono almeno otto le leggi respinte al mittente, comprese le conversioni dei decreti su mucca pazza e influenza aviaria.
La convivenza con Napolitano è cronaca più recente. Dalla riforma del lavoro dell’aprile scorso ai tagli nella manovra finanziaria del maggio, le leggi bocciate fra le polemiche non mancano, ma per dire il clima, più di tutto bisogna forse ricordarsi di Eluana Englaro. Per tenere in vita la donna in coma da 17 anni cui il padre Beppino aveva deciso di sospendere le cure, il premier aveva deciso di fare un decreto d’urgenza.

Il presidente della Repubblica gli scrisse una lettera, per «consigliargli» di non farlo. Ma il premier procedette ugualmente, giudicando «inaccettabile» il precedente di una lettera preventiva di Napolitano, e avvertendo: «Sono io che guido il Paese». Napolitano non firmò.

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