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Quando il latitante più pericoloso fu condannato alla libertà vigilata

Tre anni fa un giudice decise che il capo di Cosa nostra «doveva essere riadattato alla vita sociale»

Quando il latitante più pericoloso fu condannato alla libertà vigilata

nostri inviati a Palermo

Non solo quattro ergastoli per strage, non solo decine e decine di anni inflittegli da sentenze ormai definitive che lo considerano il numero uno di Cosa nostra, ma Binu Provenzano raccoglie anche condanne che mai si sarebbero potute realizzare, proprio per la loro assurdità procedurale.
Alla fine del 2003 la II sezione del Tribunale di Palermo, presidente Antonio Prestipino (omonimo del pm che coordina le indagini dell’arresto), lo condanna infatti a due anni di libertà vigilata. Una pena che gli viene affibbiata per rispondere all’esigenza di «riadattamento di persona condannata, alla vita sociale». La sentenza prevede anche che il condannato si presenti due volte alla settimana dai carabinieri di Corleone per mettere una firma nel registro dei sorvegliati speciali. E così come legge impone, questa misura viene comunicata a tutti gli uffici della catturandi d’Italia. Una sentenza, spiegano al Palazzo di Giustizia di Palermo, che sarebbe stata evitata se il boss avesse cominciato a scontare la pena ad otto anni precedentemente subita a conclusione di una costola del processo Grande Oriente. Uno dei processi che metteva sotto accusa boss, gregari, politici e piccoli imprenditori della zona tra Bagheria e Caccamo. Ma visto che il boss era latitante e irraggiungibile, giustizia impone che bisogna condannarlo anche ad una sorveglianza speciale di due anni. Nuovo procedimento, nuovo tempo sprecato, condanna paradossale.
Di situazioni simili è lastricata la via giudiziaria del grande recluso: e questa sarà infatti una delle ricostruzioni più complesse affidate ai pm del cosiddetto pool Provenzano. Sono almeno quattro gli ergastoli già esecutivi, e centinaia gli anni accumulati. Provenzano è stato anche condannato quale mandante di centinaia di delitti di mafia in quanto capo della Cupola, come definito dal cosiddetto teorema Buscetta.
«Se dovessi fare una valutazione di tutte le carte che riguardano i procedimenti a carico del mio assistito, dovrei dire che un tir non basta», ironizza l'avvocato della difesa, Francesco Marasà. Per conoscere esattamente la storia processuale dell'ex latitante, bisognerà attendere l'arrivo delle notifiche dai tribunali interessati a partire dagli anni ’60.

«Io mi atterrò esclusivamente alle carte processuali - aggiunge il legale - e quel che risulterà dal queste carte sarà quanto mi servirà da spunto per impostare la difesa».

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