Cultura e Spettacoli

Quando la letteratura smette di amare il romanzo d’amore

In molti libri dell’ultima stagione, come il best seller della Nothomb Né di Eva né di Adamo, il tormento dei sentimenti lascia il posto al culto del quieto vivere

Quando la letteratura smette  di amare il romanzo d’amore

Milano - Oggigiorno l’amore è morto. Lo ha ucciso la letteratura. Se ne può rinvenire il cadavere un po’ ovunque. Per esempio nell’ultimo libro di Amélie Nothomb Né di Eva né di Adamo (Voland, pagg. 160, euro 13, traduzione di Monica Capuani), che rappresenta con precisione, senza volerlo, il lento sgretolarsi di un sentimento che per secoli - nella vita e nei libri - ha mosso il sole e tutte le stelle, nessuna esclusa.

Nel libro della Nothomb, 400mila copie vendute in Francia, ci si imbatte a un certo punto nella formula con cui la giovane protagonista Amélie, insegnante di francese a Tokyo, riassume ciò che prova per l’innamorato Rinri, suo ricco allievo: «Lui mi rendeva felice. Ero sempre contenta di vederlo. Provavo per lui amicizia, tenerezza. Quando non c’era, non mi mancava». Se si è amato almeno una volta nella vita, viene da chiedersi: ma... e il desiderio? E il suo rovescio, la mancanza? E la passione, dov’è la passione, in questo affetto che, pagina dopo pagina, ci appare sempre più amebico, autosufficiente, cerebrale, quasi distratto, e che sparisce quando ci si è voltati le spalle?

È una domanda che ci si può porre anche per metà dei romanzi usciti dall’inizio dell’anno ad oggi, da Io non dormo sola di Catherine Townsend (Einaudi, pagg. 272, euro 13, traduzione di Tiziana Lo Porto) a L'amore è sopravvalutato di Brigitte Giraud (Guanda, pagg. 89, euro 10, traduzione di Marcella Uberti Bona), tanto da far pensare che la letteratura stia rispecchiando, nonché contribuendo a formare, una società che non crede più all’amore così come per secoli lo si è vissuto e raccontato: quell’amore che nelle parole di Socrate a Fedro è innanzitutto «ricordo del bello» e spinta verso la bellezza e le idee eterne. Al pari degli «archistar» che riempiono le città di costruzioni dalle superfici impenetrabili e respingenti, e che ad ogni modo non danno dolce poesia alla vita quotidiana, gli scrittori e soprattutto le scrittrici si compiacciono di mettere nei loro libri più coltelli che carezze, più biologia che tenerezza e futuro, giocando «al ribasso» e alla chirurgia psichica. Si vedano a proposito le antologie di racconti (se ne trovano ovunque, come Tu sei lei, Minimum fax) dove le autrici intellettualizzano e politicizzano così tanto l’amore da sterilizzare tutte quelle profonde differenze di genere che lo rendevano possibile. Separano i sessi senza più renderli affascinanti l’uno per l’altro e trovano sempre nuove ragioni di distanza, trascinate da un nichilismo che si compiace di «non fare sconti a niente», di guardare in faccia «il mondo brutale» e i «bassifondi dell’anima», ma appunto, i bassifondi soltanto. Da un piccolo seme di verità - l’amore può anche essere in parte idealizzazione e invasione della sfera altrui, e avere aspetti vicini alla follia - fanno germogliare un’intera foresta di menzogne: l’amore non esiste, è solipsismo da folli, è malattia da cui guarire. O è violenza reciproca. O dura solo il tempo di una tempesta di baci.

All’amore «classico» - percorso attraverso cui le persone si individualizzano, fanno dono di sé e portano bellezza nel mondo, fosse solo cantando quella dell’amato e il dolore per la sua lontananza o le sue resistenze - oggi si preferisce una relazione incentrata sullo «stare bene insieme», come se si trattasse di un blando ansiolitico, e basata sullo scambio mondano, tra un bicchiere di chardonnay e l’altro, di pensieri ed emozioni «interessanti» piuttosto che sull’intenso, spontaneo tentativo di condivisione di alcune eterne, inafferrabili verità dell’anima, come ancora lo troviamo in Abelardo ed Eloisa, Nerval, Puskin, Schnitzler. Separata dalla bellezza del mondo e della natura, la narrativa attuale ha il cuore nel cervello: cioè non nel posto giusto. Non stupisce che l’amore, con rare eccezioni, sia raccontato esclusivamente come uno scambio di due fantasie e il contatto di due epidermidi (per dirla con Chamfort), come una serie di «accoppiamenti giudiziosi» tra eterni single confusi e pigramente semi-felici, che «salvano» il poco che vivono ammantandolo di cultura e alla fine rivestendolo di alibi.

In questo, la protagonista di Né di Eva né di Adamo è emblematica. Dopo aver ammesso di vedere nell’amore «un trucco del mio istinto per non assassinare l’altro» (pensiero che nemmeno Schopenhauer avrebbe potuto concepire) e non riuscendo a respingere oltre le richieste di matrimonio del più concreto Rinri, non trova altra soluzione che fare le valigie e scomparire dietro l’angolo, lasciando l’innamorato vox clamantis in deserto. Comportamento frequentissimo e spiegabile: scomparso l’amore, o mai esistito, diventa difficile dirsi addio guardandosi negli occhi, cioè, alla lettera, affidandosi «al volere di Dio». È facile intuire come l’odierno fervore per l’eutanasia non sia lontano da una simile way of life (poiché «niente al mondo è single», diceva Shelley, tutto è legato e avanza insieme, nel bene come nel male).

Amélie e le sue sorelle libresche preferiscono all’amore l’evanescente libertà postmoderna. Consapevolmente «incapace di comportamenti solidi» (tempo fa la si sarebbe messa sotto tutela), Amélie si compiace con Rinri di essere «sincera come l'acqua. Se sono acqua, che senso ha che io ti dica sì, ti sposo? Non si trattiene l’acqua». E in una deriva intellettualoide argomenta: «Questo essere fluidi attira il disprezzo delle folle, quando invece proprio questo atteggiamento ondivago ha permesso di evitare tanti conflitti». E di indebolire la vita, si potrebbe aggiungere, rendendola schiava di una procrastinazione codarda e infinita, tenendola sempre «sul mercato» senza che diventi mai amante o sposa reale, ma solo un sottoprodotto del marketing di se stessi. Amélie e Rinri si incontreranno anni più tardi in un’incredibile scena da cartone animato, dove l’uomo dà alla donna l’«abbraccio fraterno del samurai». «Tanto più bello e nobile di una stupida storia d’amore» e lei vivrà in quei dieci secondi quello che non ha vissuto nel lungo rapporto con lui. La felice durezza della costruzione di un amore - e il suo possibile fallimento - è sempre, oggi, sostituita da tali momenti in cinemascope dell’anima.

Vittima «del proprio essere acqua» e di una mollezza spirituale senza precedenti, molta letteratura contemporanea ha ricamato sull’amore in modo lugubre o spensierato, sempre con la doppia pretesa di vivere nel «puro sentire» e di mantenere, per una sorta di esigenza scolastica, le apparenze dell’intellettualità: femminilizzata come mai in passato, poco plastica, ricorda la frase che i dozzinali manuali di auto-aiuto americani suggeriscono alle lettrici di attaccare sullo specchio del bagno: «Ti sei ricordata di abbracciarti oggi?».

Quanto lontana Madame de La Fayette e la sua Principessa di Clèves! O anche solo il triste, vitalissimo Sándor Márai: «È ancora vivo il ricordo di come, un tempo, a ogni essere vivente fosse imposto un compito temibile: l’amore, vale a dire la piena espressione della vita, la perfetta comprensione del senso dell’esistenza e, quale suo esito, l’annientamento. Amare significa semplicemente conoscere appieno la gioia e poi morire. Ma milioni e milioni di persone si aspettano dai loro innamorati rimedi caritatevoli...

E non sanno che quel che ottengono è così insignificante, e che bisogna sapersi donare, in maniera incondizionata, perché il senso del gioco consiste in questo».

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