Marco Gervasoni*
Nel dicembre di un secolo fa compariva nelle librerie il primo numero de La Voce, una rivista che rivoluzionò la cultura italiana. Il nome era rassicurante e in fondo neutro, ma i suoi fondatori, Giuseppe Prezzolini e Giovanni Papini, erano il concentrato più esplosivo di anticonformismo che si potesse trovare nell’Italia in apparenza pacificata da Giolitti. E La Voce lo dimostrò immediatamente.
Grafica e impaginazione sobria, alternava articoli brevi e taglienti a più impegnativi saggi: gli uni e gli altri accomunati da una scrittura vivace, in polemica con la prosa ancora troppo aulica diffusa persino nei quotidiani. Già per questo, tra le mani dei lettori, La Voce apparve subito come un oggetto mai visto, proveniente da altrove. Questo il linguaggio. I temi affrontati, poi, spaziavano dalla politica e dalla società alla letteratura, alla filosofia e all’arte. Pur nella vastità dello spettro, il minimo comune denominatore era lo spirito di rottura: con le tradizioni anchilosate e con un presente sonnacchioso e prevedibile. In politica gli obiettivi erano Giolitti e i socialisti riformisti, accusati di aver costruito un sistema, si direbbe oggi, di democrazia bloccata, incapace di rinnovare l’Italia nella sua arretratezza. La Voce si scagliava poi contro il malfunzionamento delle burocrazie (esilaranti e purtroppo ancora attuali gli articoli sulle biblioteche pubbliche) e contro i gruppi sociali che crescevano grazie alla «corruttela» giolittiana.
In letteratura e in arte, i vociani guardavano alle avanguardie francesi, tedesche e austriache, senza disdegnare quelle italiane - anche se il rapporto con il futurismo nascente fu caratterizzato da alti e bassi. Sfogliando la rivista troviamo il meglio dell’intellettualità italiana, sia quella giovane, sia quella già matura, ma attratta dalla vivacità e dal coraggio dei vociani. Tra i primi, Prezzolini, Papini, Scipio Slataper, Renato Serra. Tra i secondi, Benedetto Croce, Gaetano Salvemini, Luigi Einaudi, Giovanni Amendola. Lo spirito vociano era tale che persino saggisti non inclini al frizzo (come Croce o Einaudi), negli articoli della rivista erano pronti a pezzi esilaranti.
Quanto a capacità di unire lucidità di analisi e sarcasmo, nessuno batteva Prezzolini e soprattutto Salvemini, il primo fustigatore di Giolitti.
Folgorante, in particolare, il suo articolo «Cocò all’università di Napoli». Per Salvemini il principale supporter sociale della corruttela giolittiana era il ceto intellettuale, «gli spostati della piccola borghesia intellettuale» che diventavano «professionisti della politica peggiore: non avendo niente da fare, possono dedicare tutto il loro tempo alla vita pubblica; conquistano i primi posti nelle file dei partiti, diventano uomini di fiducia, i depositari dei segreti, i guardiani e i padroni delle posizioni strategiche più delicate (...). Per essi non esiste una scala di valori morali obiettivi. Il merito consiste nell’avere un protettore potente». Responsabili erano i professori universitari (di cui pure Salvemini faceva parte), nelle cui mani l’Università «funziona come una scuola superiore di malavita».
Per questo il primo compito dei vociani era imprimere una «riforma intellettuale e morale» all’Italia, sulla scorta di quella auspicata per la Francia anni prima dallo storico Ernest Renan. La Francia era la nazione a cui buona parte dei vociani, e senz’altro Prezzolini, si sentivano più vicini. Francesi erano spesso ospitati sulla rivista (da Georges Sorel a Romain Rolland a Charles Péguy). Francese era il modello di intellettuale a cui Prezzolini voleva ispirarsi. L’intellettuale come depositario dell’universale, la cui parola era portatrice di una valenza politica: indicava cause per cui combattere, gruppi con cui schierarsi, nemici da abbattere. Era il prestigio derivante dall’essere intellettuale che dava peso e valore alla sua parola.
Questa concezione dell’intellettuale era nata in Francia, negli ultimi anni a cavallo tra Otto e Novecento, durante l’affare Dreyfus (lo stesso termine fu inventato allora). Prezzolini, che veniva da un’esperienza diversa, quando fondò La Voce pensò di importare questo modello di intellettuale anche nel nostro Paese, con i dovuti aggiustamenti. Il ceto intellettuale, opportunamente rigenerato, doveva essere la punta della lancia contro il sistema giolittiano: non avendo nulla da perdere, e tutto da guadagnare, poteva indicare le storture e segnare le soluzioni.
Quest’idea di intellettuale, portatore di una specifica missione, assieme politica ed etica, segnò per tutto il Novecento la mentalità dei nostri «chierici». A Prezzolini e a La Voce si ispirarono tutte le iniziative intellettuali degli anni successivi: Piero Gobetti con Rivoluzione liberale, Antonio Gramsci con L’Ordine nuovo (precedente alla fondazione del partito comunista). Non solo a sinistra, ovviamente. Beniamino dei vociani fu, prima della guerra, il Mussolini socialista che, quando fondò Il Popolo d’Italia, nel ’14, portò con sé molti vociani, a cominciare da Prezzolini e da Papini. Il Prezzolini degli anni Venti un po’ aveva rivisto le proprie posizioni vociane; e in polemica con Gobetti mise in guardia dalla concezione titanica dell’intellettuale.
Ma ormai la macchina era avviata. A sinistra il modello vociano, mai esplicitato (Prezzolini era considerato, se non fascista, certo reazionario), fece breccia. Oltre che in Gobetti e in Gramsci, se ne può trovare traccia perfino nelle riviste degli anni Sessanta dell’area extraparlamentare (i Quaderni piacentini, a esempio). A destra (per schematizzare) il modello vociano e prezzoliniano fu direttamente rivendicato dalla linea Leo Longanesi-Indro Montanelli.
I quali non avevano una concezione titanica dell’intellettuale (anzi), ma ritenevano, un po’ come il Prezzolini di un secolo fa, anche se con maggior pessimismo, che la battaglia culturale, autonoma dai partiti, fosse il solo modo per pungolare gli italiani e spingerli a rinnovare il loro Paese.
*Professorei Storia contemporanea all’Università del Molise
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