Quando persino Bob Dylan perde voce e faccia di fronte ai regimi comunisti di Cina e Vietnam

Il simbolo della canzone di protesta fa approvare la scaletta della censura cinese e vietnamita: via tutti i brani politici. E nessun accenno ai dissidenti. Cancellate "Blowin' in the wind" e persino la spirituale "Knockin' on heven's door". Delusi i fan: non si può fare uno show a Pechino come se niente fosse

Quando persino Bob Dylan perde voce e faccia  
di fronte ai regimi comunisti di Cina e Vietnam

In fondo prima o poi doveva succedere: fare i conti con se stesso, con le proprie canzoni e con ciò che si rappresenta è uno scotto spesso penoso che tocca a tante rockstar, specialmente se hanno settant’anni e sono ancora in giro pagati e riveriti. «E un uomo quante volte può voltarsi e far finta di non aver visto?». In questi giorni Bob Dylan è a spasso, dietro, ca va sans dire, un congruo cachet, sui palchi di paesi tuttora più o meno apertamente comunisti e comunque molto lesivi di qualsiasi diritto civile. Ma se ne sta zitto. Fa il suo show come se fosse in un qualsiasi palazzetto dello sport e via. Zitto. Neanche una parola, una lievissima critica, un’allusione, un sottinteso. Canta, suona e poi va a cena neanche fosse Elton John o i Cugini di Campagna, con tutto il rispetto. Ennò: Bob Dylan è Bob Dylan, tre generazioni di manifestanti sono scesi in piazza, hanno scritto, protestato, urlato spesso con fini utopici o addirittura illeciti e talvolta in modo onorevole, utilizzando le sue parole come slogan.

Non può tacere, che figura ci fa? Pessima. E difatti persino il Times inglese, non certo un foglio reazionario, si è chiesto: ma come, lunedì i cinesi hanno arrestato con accuse farlocche l’ennesimo artista dissidente, il barbuto Ai Weiwei, e mercoledì mister Bob Dylan fa il suo concertino senza spiccicare una parola? Muto come un pesce, forse persino la disprezzata Britney Spears, per dire, avrebbe trovato il modo di non farci una figuraccia, tanto più che in Cina c’è materiale a bizzeffe, mica bisogna sforzarsi tanto per trovare una violazione qualsiasi. «E un uomo quante volte può voltarsi e far finta di non avere visto?» è uno dei versi centrali di Blowin in the wind, scritta nel 1962 e pubblicata poi nell’album The Freewheelin' Bob Dylan, uno dei manifesti della cosiddetta controcultura, inneggiata spesso da chi aveva semplicemente paura della cultura, che trasformò Bob Dylan, allora nella prima fase della propria carriera, in un’icona della contestazione, viva anzi vivissima ancora oggi nonostante lui in quasi mezzo secolo sia stato tutto e il contrario di tutto, da ateo a «born again christian» ossia di nuovo devoto, da acustico a elettrico, da folk a rock e poi a folk, da ferreo difensore di diritti civili (a caso, Pat Garrett & Billy the Kid oppure Hurricane) fino a fornitore di canzoni per lo spot di un lussuoso Suv della Cadillac.

Bob Dylan compirà settant’anni il 24 maggio. Per festeggiarli, ha iniziato un tour che, nel suo giro senza fine che appunto si chiama Neverending Tour, è inedito: per la prima volta la Cina e poi il Far East asiatico. L’altro giorno era a Pechino, venerdì a Shangai, domani sarà in quella Saigon che i comunisti nel 1976, quando gli americani avevano lasciato il Vietnam e lui a casa collaborava con Allen Ginsberg, avevano ribattezzato Ho Chi Minh City in onore del padre dei sanguinari socialisti vietnamiti. Quasi nessuno del pubblico cinese ha riconosciuto Bob Dylan (peraltro la platea era imbottita di osservatori governativi come nella fu Ddr), tanto la sua voce nel tempo si è rattrappita e le canzoni sono state drammaticamente stravolte. E quasi nessuno dei vietnamiti lo riconoscerà a Saigon se non altro perché il biglietto costa dai 43 ai 125 dollari in un Paese dove uno stipendio di 100 dollari se lo sognano quasi tutti. Lo vedranno quindi, speriamo riconoscendolo, più che altro gli occidentali trapiantati a Saigon come l’insegnante italiana Sara Tirone che non vede l’ora perché «finalmente corono il mio sogno di vederlo dal vivo». Purtroppo però non potrà ascoltare due delle colonne sulle quali è stata costruita la dylaneide, le canzoni simbolo, la benzina della controcultura. Blowin in the wind, appunto. E pure The times they are a-changin. Perché? Perché al regime cinese e a quello vietnamita, figli o figliocci di quegli stessi regimi che la controcultura allora esaltava, non vanno bene. Non si sa mai, capisci a me: e se qualcuno si accorgesse davvero che «un uomo quante volte può voltarsi e far finta di non aver visto?». Un po’ come se, sempre con rispetto parlando, Elton John non cantasse Candle in the wind o Crocodile rock oppure i Cugini di Campagna la loro Anima mia.

Naturalmente lui tace e acconsente. Salirà sul palco anche a Saigon, canterà le sue canzoni ormai irriconoscibili e poi tanti saluti a tutti voi poveracci. D’accordo, Bob Dylan oggi ha settant’anni quasi suonati, è solo un musicista disincantato e non è stato solo «protesta», o lo è stato magari suo malgrado. Ma se oggi è «His Bobness», sua maestà Bob Dylan, lo deve soprattutto a quella primitiva fase della sua carriera, intrisa di elogi purchessia, alla quale deve comunque rispetto.

E vederlo adesso che è uno di quelli che Arbasino chiama «venerati maestri» così zittito in cambio di cachet come fosse un teen idol usa e getta forse a lui non importa neppure. Ma a chi ci ha creduto, fa male. Tanto. E agli altri fa sorridere. Tanto. O forse di più.

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