Quando Di Pietro non voleva pubblicare le intercettazioni

RomaIn effetti, a ben guardare, il Pier Luigi Bersani prima maniera, quello delle liberalizzazioni, simpatico sorridente e bon vivant, neppure sfigurerebbe. Nessuno ci aveva provato, finora, a «chiamarlo» nel Pdl. Ci ha pensato il presidente della Camera, Gianfranco Fini, sia pure con gusto ironico, e tanto per sottrarsi all’abbraccio un attimo prima che potesse diventare troppo caloroso. Fonte d’imbarazzo, in un momento già duro. «Pur di difendere la Costituzione, vado con chiunque, anche con Fini», aveva buttato lì il segretario del Pd. «Non sapevo che anche Bersani volesse entrare nel Pdl...», la replica del numero uno di Montecitorio.
Il connubio, fosse pure di convenienza, non sarà da fare. E in ogni caso, non sarà mai da dichiarare. Non mancando, infatti, solidi punti di contatto costituzionale tra i due. Fatto è che la politica dell’oggi presenta troppe variabili, e troppo indipendenti, per poter mettere radici che superino l’acquerugiola del mattino, il sapore della boutade, l’evanescenza della chiacchiera. E si capisce che il leader del Pd, partito che dell’evanescenza fa ragione sociale, ricorre a qualsiasi mezzo pur di richiamare un po’ d’attenzione sul principale partito d’opposizione, e la sua «contromanovra» che va di scena stamattina al Palaeur di Roma. Manifestazione indetta per fare un po’ di voce grossa, proprio mentre in Parlamento i piddini si prodigano per vedere accolti alcuni dei loro emendamenti. Ma Bersani dal palco oggi ribadirà che «i sacrifici per rimettere a posto i conti pubblici non li devono fare coloro che lo hanno sempre fatto: i bidelli, gli insegnanti, i lavoratori dipendenti». E chiederà che «ora facciano la loro parte quelli che non hanno mai fatto sacrifici, i furbetti delle rendite finanziarie, dei capitali scudati, quelli che guadagnano come Berlusconi e che in questa manovra metteranno zero euro».
Dai microfoni di Radio anch’io, invece, ieri mattina, il segretario del Pd era andato a tutto campo. Aveva difeso la classe dirigente piddina dal pesante fuoco «amico» di Repubblica, per esempio. «De Benedetti ha tanti modi per parlare e noi, anche quando non condividiamo, ascoltiamo, ma con la schiena dritta». Aveva parlato dell’accordo per Pomigliano, cercando una difficile quadratura del cerchio tra la posizione del partito - che auspica il sì al referendum - e la «necessità di non farne un modello». Aveva insistito sul no alla legge anti-intercettazioni, e contestato l’impostazione della manovra di Tremonti, chiedendo di cancellare «alcune enormità». Sulla condivisibile «sburocratizzazione», per esempio, il governo «ha scelto la strada più lunga, più inutile, più improbabile» e si potrebbe intervenire anche «domattina, senza lanciare bolle di sapone». Ma la replica del sottosegretario Bonaiuti non s’era fatta attendere: «Bersani parla, parla, parla, ma Berlusconi ha introdotto la flessibilità del lavoro e ora una nuova libertà per tutte le imprese. Ancora fatti contro chiacchiere».
Il passo che doveva attirare l’attenzione generale, infine, eccolo racchiuso nella riproposizione di quel «nuovo Cln» già lanciato mesi fa. «Voglio rafforzare la mia Costituzione, la più bella del mondo e contrastare il modello plebiscitario - aveva esordito Bersani -. Davanti a un’alleanza costituzionale, per fermare la deriva populista, io vado con chiunque». Anche con Fini, dunque.

«Sono aperte le iscrizioni», aveva aggiunto, frenando solo sulla possibile alternativa di governo: «Ma se devo guardare al profilo politico di un’alleanza allora devo fare una scelta, e poi non mi risulta che Fini e Casini siano alleati...». Per ora no, insomma. Ma il vaticinio di Bersani è che «il governo non duri tre anni». C’è, dunque, spazio per tessere tele di qualsiasi colore.

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