«Fuori le Br da Palazzo Chigi». In un ipotetico manifesto elettorale si potrebbe sintetizzare così il Di Pietro pensiero, pronunciato pochi mesi fa davanti a unassise Idv. «Che se ne fa lItalia di un premier che va allestero per parlare male del suo Paese, della magistratura e del presidente della Camera?», era la domanda retorica che il leader Idv aveva rivolto alla platea dei 132 coordinatori dipietristi locali, riuniti nel Bergamasco lo scorso 11 dicembre. La risposta? «Uno che si comporta così è un terrorista politico». Proprio così, un terrorista politico.
Eppure quando lex pm pronunciò queste frasi nessuna delle sedicenti vestali della democrazia allopposizione si stracciò le vesti, come invece è successo dopo i manifesti sulle «Br in Procura» che sono costati la candidatura a Roberto Lassini. Nessuna inchiesta venne aperta dalla magistratura, nessun comunicato del Quirinale stigmatizzò gli strali di Tonino. Anzi, qualche mese dopo persino il responsabile Giustizia del Pd Andrea Orlando, definì «degno di unorganizzazione terroristica» un comunicato Pdl contro Gianfranco Fini.
Daltronde, sia il Pd che lo stesso Di Pietro non fiatarono quando un vero ex terrorista come Sergio DElia varcò le soglie di Montecitorio sotto le insegne del partito radicale nel tragicomico biennio dellesecutivo dellUnione. Neppure quando lallora ministro della Solidarietà sociale Paolo Ferrero chiamò alla Consulta sulle tossicodipendenze lex brigatista Susanna Ronconi. Lesponente Prc fu persino indagato per abuso dufficio dal pm romano Sergio Colaiocco visto che la ex terrorista (lincarico saltò, ovviamente) era interdetta dai pubblici uffici. Nel 2008 la moglie di DElia, Elisabetta Zamparutti, venne letteralmente «imposta» a Walter Veltroni dai Radicali al posto del marito per evitare ulteriori polemiche e oggi siede comodamente sugli scranni di Montecitorio sotto le insegne del Pd.
Ma la cosa ancora più paradossale è che mentre Di Pietro può dare impunemente del «terrorista» al premier, Berlusconi potrebbe essere processato per aver dato del «bugiardo» e del «senza laurea» al leader Idv. La Corte Costituzionale ha infatti dichiarato «ammissibile» il conflitto di attribuzione proposto dal gup del Tribunale di Bergamo contro la Camera dei deputati, che aveva deliberato «linsindacabilità» delle opinioni espresse dal presidente del Consiglio su Di Pietro. Un primo sì, in attesa della decisione nel merito, che potrebbe spalancare le porte a un possibile processo contro Berlusconi per «diffamazione aggravata».
Davanti alle telecamere di Porta a Porta del 10 aprile 2008 il Cavaliere aveva messo in dubbio la validità della laurea del leader dellIdv: «Mi rivolgo al ministro della Giustizia e al ministro dellIstruzione - disse Berlusconi - perché sottopongano a custodia i documenti relativi alla laurea e ai suoi concorsi in magistratura», ipotizzando che in realtà quel titolo di studio fosse «una cosiddetta laurea dei servizi segreti, visto che nessuno dei professori universitari si ricorda di lui». Secondo la Camera dei deputati le parole di Berlusconi rientrano nelle cosiddette «opinioni coperte dalla prerogativa di insindacabilità parlamentare» prevista dallarticolo 68 della Costituzione. Di diverso avviso il gup del tribunale di Bergamo e, in prima battuta, anche della Consulta perché «hanno ad oggetto fatti riguardanti la professione di magistrato svolta da Di Pietro prima di intraprendere la carriera politica», e in secondo luogo perché «lintervento di Berlusconi - secondo il giudice - non risulta correlato ad iniziative parlamentari tipiche recenti, né riproduttivo di opinione espresse sempre di recente in sede parlamentare». Non sarebbe la prima volta che «linsindacabilità» viene messa in discussione dalla Consulta: è già successo col parlamentare Pdl Maurizio Gasparri e con lex ministro della Salute, oggi leader della Destra, Francesco Storace.
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