Quando Prodi ostacolò il progetto di Formigoni

Se questo sistema oligarchico che gioca a Monopoli mentre imbavaglia il mercato funzionasse a dovere, nessuno avrebbe nulla da ridire. In realtà, e gli italiani lo sanno benissimo, all’ordine del giorno delle città italiane ci sono rotture di tubi e fognature, black out nelle forniture, pessima qualità dell’acqua tranne rare eccezioni come Milano, un alto livello di inquinamento dei fiumi e soprattutto un’endemica lentezza nella riparazione dei guasti e bollette sempre più salate. Un sistema di governance non a regime con la legge, investimenti pianificati (e non realizzati) insufficienti a interrompere l’emorragia d’acqua, costi utente che variano di quasi il 90% e un sistema normativo disomogeneo completano il quadro. La via d’uscita? C’è. Si chiama «principio di separazione» tra la proprietà delle infrastrutture (quella che fa gola...) attraverso una società pubblica, trasparente ma blindata, che le controlli e l’erogazione del servizio di fornitura dell’acqua, che i colossi dietro le ex municipalizzate snobbano e che invece le migliaia di piccole e medie imprese italiane farebbero a gara ad accaparrarsi, creando un volano in termini di Pil e posti di lavoro.
Il principio funziona talmente bene che, quando è stato applicato con successo in Lombardia la sinistra, come volevasi dimostrare, si è messa di traverso. E l’ha spuntata. Il braccio di ferro tra il governatore lombardo Roberto Formigoni è iniziato all’avvento del tragicomico biennio di governo dell’Unione, nel 2006. La «colpa» di Formigoni è stata quella di scegliere questa strada attraverso la legge regionale n° 26 del 2003 sui servizi idrici. All’articolo 49 questo principio di separazione tra il controllo delle reti in mano agli Ato (e quindi agli enti locali) e la gestione del servizio idrico veniva reso «obbligatorio». Norma impugnata dal Professore il 10 ottobre del 2006 perché incostituzionale, in quanto nessuna Regione può decidere la separazione tra reti e servizi, visto che la competenza per farlo è esclusiva dello Stato. Caduto il centrosinistra, all’inizio del 2008, il braccio di ferro sembrava scongiurato. Il nuovo esecutivo Berlusconi, nel tentativo di scongiurare il proseguimento del ricorso, aprì una trattativa con l’esponente azzurro chiedendo (e ottenendo) alcune modifiche senza smantellare l’intero impianto della norma ma senza disinnescare l’eventuale incostituzionalità. Seguì un fitto carteggio tra il ministro degli Affari regionali Raffaele Fitto e Formigoni. L’ipotesi di lavoro, se così si può chiamare, doveva essere questa: io modifico la norma regionale, tu ritiri il ricorso.
In effetti il governatore lombardo aveva recepito alcuni suggerimenti di Palazzo Chigi, inserendoli nella legge regionale n° 1 del 2009: la gestione dei servizi, secondo questa norma, avrebbe dovuto essere sottoposta a regolare gara mentre la gestione delle reti poteva essere mantenuta nelle mani di una società patrimoniale pubblica, controllata al 100% dagli Enti locali. Peccato però che il ricorso, nel frattempo, non fosse stato ritirato come (quasi) tutti pensavano.

Anzi, se ne erano aggiunti altri due, ispirati dal ministero dell’Ambiente. Ai primi di dicembre del 2009 è arrivata la sentenza. E il sistema Formigoni, contro il quale erano insorti alcuni enti locali, è stato «bocciato».

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