Arte

Quando serve un architetto non si trova mai nessuno...

Tante installazioni, pochi progetti, molta Africa. Interessante, però sembra una mostra d'arte

Quando serve un architetto non si trova mai nessuno...

Da sabato 20 maggio a domenica 26 novembre 2023, a Venezia si potrà visitare la 18esima Mostra Internazionale di Architettura, dal titolo The Laboratory of the Future a cura di Lesley Lokko, organizzata dalla Biennale di Venezia con sedi ai Giardini, all'Arsenale e a Forte Marghera. A lato, l'evento - come già succede per l'arte contemporanea - esplode nei padiglioni delle nazioni (ben 64) alcuni dei quali disseminati nella città, e in una serie di convegni, incontri, workshop, conferenze, tavole rotonde, film e performance, per tutti i sei mesi, a cui parteciperanno policymakers, poeti, registi, documentaristi, scrittori, attivisti, organizzatori di comunità e intellettuali che condivideranno il palco con architetti, accademici e studenti, creando la consueta dinamica quasi da festival che contraddistingue ormai da molti anni la Biennale, di fatto la più importante manifestazione culturale nel mondo. Una tendenza al gigantismo confermata dai prossimi restauri dell'intero complesso dell'Arsenale per i quali sono già sul tavolo 170 milioni di euro del PNRR e che allargherà la superficie espositiva e gli spazi dove far accadere cose.

Anche a fronte di questa centralità, internazionalmente riconosciuta, la Biennale non può che essere nel mood delle mode del momento, spesso come un'antenna intercettando le novità che sono già nell'aria, altre volte riuscendo a imporre una propria visione. Il rischio, come nel caso delle premesse di questa edizione, sta nel desiderio di apparire per forza up to date, in linea con le parole chiave del momento, e dunque di finire a bordeggiare il mainstream (green, gender equality, inclusion). Non è un caso il presidente Roberto Ciccuto abbia sottolineato con enfasi come la Biennale sia impegnata in modo concreto nel cruciale obiettivo del contrasto al cambiamento climatico, promuovendo un modello più sostenibile per la progettazione, l'allestimento e lo svolgimento di tutte le proprie attività e che abbia ottenuto niente meno che la certificazione di neutralità carbonica.

Se il primo must è dunque la «decarbonizzazione», il secondo è la «decolonizzazione» essendo che la Biennale della Lokko, architetto scozzese con cittadinanza ghanese, ha focus sull'Africa e sulle contraddizioni di un immenso continente che vive tensioni varie, ovviamente un completamento della decolonizzazione dai Paesi europei, nuove forme di colonizzazione cultural-religiose da parte dei Paesi islamici o puramente economiche da parte della Cina, una serie di conflitti sanguinosi ancora in essere, progetti di sviluppo, migrazioni, una incessante «diaspora» che ha permesso comunque alla cultura africana di permeare, «abbracciandolo», il mondo nel suo complesso.

Ma c'è di più, la curatrice ha pensato bene di archiviare, trovandoli riduttivi, i termini classici «architetto», «urbanista», «designer», «ingegnere», «accademico», ritenendo che le condizioni complesse dell'Africa e di un mondo in rapida ibridazione richiedessero una comprensione diversa, e dunque sostituendoli con il termine practitioners; che rende subito l'idea di «un agire concreto e necessario, senza privilegiare canoni estetici o già sperimentati», per una mostra «che fino a poco tempo fa era vissuta come la rappresentazione del nuovo, del bello e dello sviluppo tecnologico nella scienza della costruzione», e che oggi invece deve diventare un «agente di cambiamento» e rappresentare «un momento e un processo». Cosa significhi l'arcano è spiegato ancora dalla curatrice essendo che una mostra di architettura «prende in prestito struttura e formato dalle mostre d'arte, ma se ne distingue per aspetti critici che spesso passano inosservati. Oltre al desiderio di raccontare una storia, anche le questioni legate alla produzione, alle risorse e alla rappresentazione sono centrali nel modo in cui una mostra di architettura viene al mondo»; ovvero per tradurre in soldoni, la mostra di architettura tende ad assomigliare sempre di più a una mostra di arte contemporanea, al posto dei progetti architettonici le installazioni, al posto degli architetti i practioners che - a noi sembra - prediligono più il momento performativo che quello progettuale, più la comunicazione che la realizzazione. In ogni caso, The Laboratory of the Future comprende 89 practitioner africani o diasporici, l'equilibrio di genere - scontatamente - è assicurato e l'età media dei partecipanti è di 43 anni, mentre scende a 37 nella sezione Progetti Speciali, in cui il più giovane ha 24 anni. Il 46% dei partecipanti considera la formazione come una vera e propria attività professionale e, per la prima volta in assoluto, quasi la metà dei partecipanti e oltre il 70% delle opere esposte proviene da studi a conduzione individuale o composti da un massimo di cinque persone.

Torna la partecipazione della Santa Sede, con un proprio padiglione sull'Isola di San Giorgio Maggiore; il Padiglione Italia alle Tese delle Vergini in Arsenale, è curato dal collettivo Fosbury Architecture.

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