Quando si autoassolse in tv: «Non ci sto»

Quando si autoassolse in tv: «Non ci sto»

Non ci stava. Anzi, dava l’allarme. «A questo gioco al massacro io non ci sto. Io sento il dovere di non starci e di dare l’allarme», disse. Quando, nel 1993, scoppiò lo scandalo («questo ignobile scandalo») sui presunti fondi neri, dispensati dai servizi segreti ai ministri degli Interni «degli ultimi dieci anni», tutti escluso Fanfani, e quindi compreso Oscar Luigi Scalfaro (al Viminale fra il 1983 e il 1987), l’allora inquilino del Quirinale fece irruzione a reti unificate nelle case di tutti gli italiani per comunicare urbi et orbi la sua preoccupata indignazione.
Erano le 22.30 della sera del 4 novembre. Tangentopoli infuriava, le elezioni politiche erano alle porte, i veleni corrompevano la vita pubblica. Nel tardo pomeriggio, le agenzie avevano riportato le nuove «rivelazioni» che avevano portato lo scompiglio nel mondo politico. Si parla di un presidente della Repubblica pronto a dimettersi. Nel dopocena gli italiani scoprono che le intenzioni del capo dello Stato sono altre.
Scalfaro imposta la sua arringa di (auto)difesa puntando sui distinguo: «Diamoci una scrollata», dice fra l’altro, «per distinguere il male dalle malignità, dalle bassezze, dalle falsità, dalle trame di vario genere e misura». Mica ne fa una questione personale, il presidente. «Non ci sto, non per difendere la mia persona, che può uscire di scena in qualsiasi momento, ma per tutelare l’istituto della presidenza della Repubblica».
Però fa un certo effetto rileggere oggi le parole dello Scalfaro di allora: l’«asprezza disgustosa della sleale battaglia», il «dovere primario di non darla vinta a chi lavora allo sfascio»... Toni e termini molto diversi da quelli usati nell’intervista di ieri a Repubblica, dove l’ex inquilino del Quirinale spiega invece come «su fatti che interferiscono nelle responsabilità di governo» (e in questo caso non parla di fondi neri gestiti da istituzioni dello Stato, ma di festini a luci rosse) altro che spot televisivi, bisogna riferire in Parlamento, che ha «il diritto di sapere». Quanto è cambiato in questi sedici anni.

Nel ’93 bisognava «reagire considerando reato il reato, ma difendendo a oltranza e gli innocenti e le nostre istituzioni repubblicane». Ora invece bisogna preoccuparsi di chiedere scusa ai cittadini, «cospargendosi il capo con un pizzico di cenere». Ieri non ci stava, oggi non ci vuole stare.

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