Fabrizio De Feo
da Roma
Lultima fotografia, il marchio e la memoria che forse rimarrà stampata nellimmaginario dellopinione pubblica, è quella di Antonio Fazio in posa nel suo studio con il quadro del San Sebastiano martire ben visibile alle sue spalle. Un riferimento beffardo e simbolico alla sua strenua «resistenza» contro gli insulti e le ferite patiti negli ultimi mesi. Un fuoco senza tregua fatto esplodere praticamente da tutti, con lunica eccezione di un piccolo plotone di «fazisti», rimasto sempre più sguarnito con il passare del tempo.
Laccerchiamento vissuto nelle ultime settimane - con liscrizione al registro degli accusatori perfino della Lega, dellAvvenire (il quotidiano dei vescovi) e della Bce - non è stato, però, la condizione naturale in cui luomo di Alvito si è trovato a operare nel corso degli ultimi anni. Soltanto due giorni fa Ivo Tarolli, senatore Udc, ricordava quando Pierluigi Castagnetti andò a trovare il governatore nella scorsa legislatura per offrirgli la presidenza del Consiglio. Tempi lontani, dirà qualcuno. Ma anche portando il nastro più avanti e puntando i riflettori sugli anni 2003-2004 non è difficile individuare una buona dose di piccole e grandi ipocrisie. In quel periodo Giulio Tremonti, allindomani del crac Cirio-Parmalat, sosteneva una feroce battaglia contro Fazio e propugnava la necessità di porre un limite temporale al suo mandato. Una stagione travagliata in cui molti, sinistra in testa, coprirono di contumelie il ministro dellEconomia impegnandosi in una difesa indiretta del governatore. Un esempio? Era il gennaio 2004 quando il coordinatore della segreteria dei Ds, Vannino Chiti, nel pieno della bufera dichiarava testuale: «Per lUlivo non cè nessuna questione Fazio». E il resto della coalizione di centrosinistra gli dava manforte.
La rete di protezione del centrosinistra, sollevata più per colpire la Cdl che per reale affetto verso il successore di Carlo Azeglio Ciampi, si alzò anche quando il famoso scandalo delle intercettazioni telefoniche proruppe in tutta la sua forza. La sinistra, anche in quel caso, fece esercizio di cinismo e di cautela. Il ragionamento, sussurrato più o meno sottotraccia soprattutto dai Ds, era il seguente: non si può cacciare il governatore altrimenti, eliminata lanatra zoppa, dovremo tenerci per chissà quanto un nuovo e più forte governatore messo lì da Berlusconi. Così, a scandalo caldo, il 27 luglio 2004 Piero Fassino predicava apertamente prudenza: «Dobbiamo stare attenti a non indebolire listituzione». Gli faceva eco Pierluigi Bersani: «Non possiamo aprire adesso il tormentone estivo Fazio sì, Fazio no. In questo modo si va allo sfascio». E se Vincenzo Visco, il 3 agosto, ricordava che «i Ds non hanno avanzato alcuna richiesta di dimissioni e leventuale mandato a termine riguarderà il successore», il 7 settembre ancora Bersani dichiarava alle agenzie che per Fazio «andarsene in queste condizioni sarebbe come cedere alla canea». Nello stesso periodo Sandro Bondi, in una intervista al Giornale, uscì allo scoperto per chiedere le dimissioni del governatore. Il muro a difesa di Via Nazionale, anche in quel caso, si alzò quasi impenetrabile con Alfonso Pecoraro Scanio - «le critiche a Bankitalia sono una aggressione che danneggia le istituzioni» - Pierluigi Bersani - «quelli di Bondi sono atteggiamenti irresponsabili» - ed Enrico Letta - «no a un regolamento di conti contro Fazio» - decisi a stoppare ogni affondo della Cdl.
Naturalmente difetti di coerenza nellodierna furia «antifazista» si ritrovano anche nel centrodestra. Gianfranco Fini, nel primo scontro fra Giulio Tremonti e Fazio, si schierò apertamente con il governatore per poi cambiare idea di recente. E Giorgio La Malfa prima feroce avversario di Fazio durante il caso Cirio-Parmalat, si trasformò in un fazista di ritorno.
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