Quando il «sostenibile» diventa insopportabile

Gentile dott. Granzotto, ritengo che solo Lei potrà fornirmi, dall’alto della Sua sconfinata conoscenza delle cose, una spiegazione della parola «sostenibile» che oggi viene, ad ogni piè sospinto, adoperata. Pochi esempi: sviluppo sostenibile, commercio sostenibile, mangiare sostenibile etc. (come vede le risparmio il «quant’altro»). Tale aggettivo io lo uso e l’ho sempre usato riferendolo ad una spesa, ad un ragionamento, ad un peso, ma oggi mi sembra se ne abusi fin troppo, non le pare? Anche l’energia deve essere sostenibile come il mercato. Mi potrebbe illuminare gentilmente. Gliene sarei grato.





La formula «sviluppo sostenibile» fu coniata nel 1987 dalla norvegese Gro Harlem Brundtland per sintetizzare in una espressione la sua dottrina della crescita economica subordinata al rispetto dell’ambiente e alla salvaguardia delle risorse naturali. Il successo non fu determinato dalla dottrina in sé, che non presenta niente di nuovo rispetto al pensiero ambientalista, ma dalla locuzione, azzeccatissima per via di quel «sostenibile», aggettivo soave, non intimativo, caramelloso, buonista (oggi si direbbe veltroniano) e quel tanto farlocchio da far colpo sulla brava gente. Più malandrino è invece il dogma che dà corpo allo «sviluppo sostenibile»: l’uomo non ha nessun diritto di atteggiarsi a creatura eletta e ritenersi migliore o superiore ad un merluzzo, mettiamo, o ad un carrubo. Avremo anche domato il fuoco ed elaborato il linguaggio, un Michelangelo avrà sì dipinto la cappella Sistina, uno Shakespeare scritto l’Amleto, un Beethoven composto l’Eroica e una Josephine Cochrane inventato la lavastoviglie, ma per Gro Harlem Bruntland restiamo solo dei pidocchi di Terra Madre. Alla quale dobbiamo devozione ed obbedienza, servirla e non servircene. Sennò le vengono i cinque minuti e zacchete, ti desertifica il pianeta.
Per non urtare quel permaloso totem, per il pensiero ambientalista non c’è che un modo: convertirsi alla «cultura della sostenibilità», ciascuno secondo le proprie inclinazioni, il proprio estro e tempo libero a disposizione. L’illustre Fulco Pratesi, per esempio, non si lava che una volta al mese e tira lo sciacquone solo ogni due settimane. Magari puzzerà un po’, ma cosa vuol dire? Se chiamati a mettere il sospensorio allo sviluppo, si stringono i denti e si procede. Quel che inquieta, caso mai, è la vastità dell’impresa perché come lei giustamente osserva, caro Gassi, pare proprio che ogni aspetto della nostra vita, quanto ci circonda e con il quale abbiamo a che fare, abbia bisogno di un’energica cura di sostenibilità. E passi per la «finanza sostenibile», l’«alimentazione sostenibile», il «commercio sostenibile» (oltre che equo e solidale, va da sé), il «turismo sostenibile» o l’«educazione sostenibile», ma ora è spuntato fuori il «Natale sostenibile» e questo è davvero troppo. Non avrei battuto ciglio per un «Halloween sostenibile»: coi riti pagani ci facciano un po’ quel che vogliono.

Ma il Natale no, giù le mani dal Santo Natale (anche perché se gliela facciamo passar liscia verrà il turno, può scommetterci caro Gassi, della «Pasqua sostenibile» e della «Quaresima sostenibile». Ma le pare?).
Paolo Granzotto

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