Ma allora, questa Jodie Foster in sandali Birkenstock, magliette sdrucite e pistolona metalizzata è una nuova giustiziera della notte o solo una povera crista scorticata che sente crescere il buio nell'anima? Il dibattito è aperto. Se da un lato il manifesto scrive che «i detrattori del film hanno voluto vedere in questa storia di violenza e vendetta una ripresa dei temi di Charles Bronson impensabile nella New York ripulita da Giuliani e santificata dall'11 Settembre», dall'altro le somiglianze con il famoso (famigerato?) Giustiziere della notte, anno 1974, sono sin troppo evidenti. Anche lì un cittadino perbene, ovviamente liberal, si armava per paura dopo aver subito un terribile lutto ad opera di una banda di balordi; anche lì uno sbirro annusava subito la verità, ingaggiando una sorta di simbolica partita a scacchi col sospettato; anche lì la gente plaudiva, invocando una tolleranza zero che sarebbe venuta qualche decennio dopo.
E però Jodie Foster non è Charles Bronson, così come il regista Neil Jordan non è Michael Winner. Per dire che Il buio nell'anima nasce con ben altre ambizioni: fare spettacolo in una cornice vagamente d'autore, rispettando le regole del genere e insieme ponendo qualche dilemma morale che ha (avrebbe) a che fare con la natura umana. Poi, certo, la vendetta tira sempre. Come ben sa Abel Ferrara, che già nel 1980, ben prima della Sposa Uma Thurman di Kill Bill o della guerriera Jennifer Garner del recente The Kingdom, intitolò il suo primo film L'angelo della vendetta, noto pure come Mrs 45, nel senso del calibro. Lì era una sartina muta, incarnata da Zoe Tamerlis, a terrorizzare i maschi newyorkesi per riprendersi, a colpi di pistola, la dignità stuprata. Qui, invece, è una colta radiogiornalista innamorata della Manhattan che fu, tra riferimenti a Dorothy Parker e sapori multietnici, a trasformarsi in una vigilante, prendendoci pure gusto.
«Perché non mi tremano le mani? Perché non mi ferma nessuno?», si chiede a un certo punto Jodie-Erica, esaltata dal potere assoluto, di vita o di morte, che ha imparato ad amministrare. Il film gioca con l'ambigua materia, ma senza vellicare gli istinti più bassi. Infatti la poveretta è tormentata, in bilico tra sofferenza psichica e lucido autocontrollo. Per la serie: il gioco non può durare. Qualcosa del genere accadeva in un dimenticato film di John Schlesinger, 1996, La prossima vittima, dove la placida Sally Field si trasformava in segugio implacabile per dare il ben servito al sadico stupratore Kiefer Sutherland.
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