Roma - Il varo del decreto liberalizzazioni è stato meno semplice del previsto. Il governo tecnico ha attraversato, più o meno, lo stesso calvario che tocca ai politici doc quando tentano di fare le riforme. A testimonianza di quanto il percorso sia stato accidentato ci sono le varie bozze circolate negli ultimi giorni di gestazione, i tanti articoli lasciati per strada che non sono finiti nel testo licenziato venerdì sera dal governo. Pezzi di riforma che i tecnici avevano preparato con cura, erano pronti per il varo, ma sono finiti in un binario morto per una «scelta politica».
Nero su bianco, in una delle prime versioni, c’era la sospensione dell’articolo 18, quello che regola il reintegro dei lavoratori licenziati senza giusta causa, per le mini aziende che si uniscono e arrivano ad avere fino a 50 dipendenti. La paternità dell’articolo, rimane uno dei misteri del governo. Smentita ufficialmente da Elsa Fornero e, via mail al Giornale, anche dal sottosegretario Antonio Catricalà. La riforma del lavoro ci sarà, arriverà nel giro di un mese, dopo un confronto con le parti sociali, ma è già gravata da un «no» pronunciato dai sindacalisti, compresi quelli dialoganti come i leader di Cisl e Uil Bonanni e Angeletti, alla ricetta più probabile, quella del contratto prevalente.
Messo da parte al termine di un confronto acceso tra la presidenza del Consiglio e il ministero dello Sviluppo guidato da Corrado Passera, lo scorporo proprietario delle ferrovie da Fs. Se ne occuperà la nuova maxi Authority dei trasporti. E il sospetto che non se ne faccia nulla è talmente forte che persino un partito ultra montiano come l’Api di Francesco Rutelli, arriva a chiedere, per bocca della responsabile economia Linda Lanzillotta, una scansione dei tempi un po’ più precisa rispetto a quella delineata nel testo del decreto. Stesso destino per l’ipotesi di scorporo di Bancoposta da Poste Italiane.
Forse solo un breve rinvio per la norma sui crediti della pubblica amministrazione. Non era nelle bozze, ma l’idea di pagare il debito pregresso dell’amministrazione pubblica con i privati attraverso titoli di stato c’è e alcune soluzioni circolano al ministero del Tesoro, insieme a norme più stringenti per il futuro, a favore dei creditori. In questo caso lo stop è di tipo tecnico. Il problema è come non fare pesare sul debito pubblico il pagamento dei debiti.
Il tema più critico, raccontano fonti governative, è stato però quello della distribuzione del carburante. All’inizio il governo puntava a separare il più possibile la rete dalle grandi compagnie, favorendo i distributori indipendenti o multimarca, mettendoli nelle condizioni di comprare il carburante ai prezzi più convenienti. E aveva previsto addirittura la vendita di un terzo dei distributori delle compagnie ai privati. Alla fine è passata la linea più prudente, la libertà di comprare sul libero mercato il 50% del carburante, ma solo per i gestori che sono anche proprietari degli impianti. Sono circa 500 in tutta Italia.
Sempre sul versante energia, è finita in un cassetto la norma sulle trivellazioni off-shore. Abbassava la distanza dalle aree protette da 12 a 5 miglia, ha suscitato le proteste degli ambientalisti e nell’ultima versione non c’è. Tratto di penna anche sulle norme che semplificavano le attività di ricerca e coltivazione di idrocarburi, studiate come soluzione di lungo termine al caro bolletta.
Scompare anche quello che doveva diventare il nuovo regime sulle concessioni delle spiagge che puntava a limitarle a quattro anni. Tra le poche categorie graziate ci sono poi gli esercenti. Il pacchetto commercio delle liberalizzazioni era uno dei principali e si annunciava come una seconda rivoluzione dopo le lenzuolate di Pier Luigi Bersani. Alla fine è scomparso dal decreto, tra lo sbigottimento del Partito democratico (sempre vicino alle ragioni della grande distribuzione) e la soddisfazione delle associazioni del settore.
Tanti segnali che dimostrano come il governo Monti, anche senza una maggioranza politica, sia perfettamente in grado di fare scelte politiche.
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