Quanti applausi per «La traviata» in piscina

Successo per la lettura moderna di Irina Brook, figlia del geniale regista Peter, anche se la direzione di Gatti a tratti non convince

Alberto Cantù

da Bologna

Non è facile essere la figlia - figlia d’arte - di Peter Brook, regista geniale il cui Don Giovanni fatto di meravigliosa prestanza fisica e vocale, di pura e scatenata recitazione con zero elementi scenici o quasi è gia un pezzo di storia del teatro novecentesco.
Vedete? Anche noi, nel parlare di quell’unicum verdiano, La traviata, che ha inaugurato la stagione del Comunale di Bologna fra proteste (cala il sipario: «Ridotti al silenzio dai tagli del Fus) e grandi consensi, con battimani a proposito e sproposito, ma tanti; anche noi - dicevamo - nel riferire della Traviata «di Irina Brook» finiamo per parlare di tanto padre, che era in sala, plaudente, fra tanti melomani un po’ sconcertati dalla regia non tradizionale e fra ospiti particolari come i ministri Buttiglione e Lunardi, il senatore Napolitano e il sovrintendente Meli più un affabile, come sempre, Lucio Dalla.
Grande successo, dunque. Con qualche dissenzietto da niente - vedremo - per Daniele Gatti concertatore e direttore e con proteste più decise per l’operato di Irina più Noelli Ginefry - scene - e Sylvie Martin-Hyzzka i cui costumi, oggi usa così, sono una colorata macedonia di Belle Epoque, contemporaneo, circense, surreale per un’ambientazione negli anni della «Dolce Vita» vista con gli occhi di una straniera. Anche Irina Brook, come il padre, vuole belle presenze sceniche. Una procace Violetta, fasciata in un abito lungo o da jeans acquamarina che è la franco-libanese Norah Ansellem: una Traviata con tutte le note della parte (sono tante), colore non memorabile, dizione un po’ vaga, bei pianissimo dolenti ed eterei che nell’ultimo atto fanno centro.
Vuole l’americano, anni 28 e passa, James Valenti, un ragazzone dolce e affettuoso con una maglietta con sopra il cuore, un bambinone immaturo qual è Alfredo. E qui, pur con qualche acerbità bello e bravo coincidono: voce morbida e pieghevole, lirica e suadente, con un futuro certo. Invece lo slovacco Dalibor Jenis, che si comporta non come un mostro ma da padre in ambasce (e col codino), è bello a vedersi e ruvido nonché imbarazzante per le orecchie.
Le lunghe note di regia ci dicono che l’acqua è segno di femminilità e una piscina vuota, il grembo materno. Le regie però dovrebbero parlare da sole allo spettatore. Qui c’è un’hammam-piscina-cabaret-soffitta che accoglie anche i balletti ok di Zerlina Hughes (ma la comparsata delle zingare che entrano in platea per leggere la mano agli spettatori mentre i tecnici cambiano una scena si commenta da sé).
Il casinetto di campagna diventa un lembo di spiaggia sotto un cielo che illividisce col precipitare degli eventi. Quanto alla protagonista, piscina o che altro, a noi è parsa la solita Traviata: sin troppo angelicata tra santini e candele nell’ultimo atto.
Gatti è un direttore sinfonico di rango. Il che vuole dire un’orchestra smagliante e fantasiosa (il clarinetto dolente, gli archi setosi, accompagnamenti leggeri, espressivi e vari). Vuol dire però anche scarti, a volte forti e a volte lievi, tra buca e palcoscenico.

I due Preludi sembrano preludere al Mahler dell’Adagietto o al Puccini funebre di Crisantemi. I tempi sono un po’ strani e non sempre ragionevoli: molto rapidi o molto lenti. L’oboe suona un po’ informale nell’annunciare l’«addio del passato». A chi piace e a chi no. Diremmo che ai più è piaciuto.

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